E dunque, che cosa ho imparato da questo lunghissimo e liberissimo excursus sulla short culture? Che cosa ho capito mente vagavo tra videoclip che ormai sono film a tutti gli effetti, corti che oggi non sono più corti, ipnotiche ricette di TikTok, sopravvalutazioni fra amici, tormentoni estivi da bersi come uno shot, appunto, e tagli alla Mia Farrow? Che cosa resta adesso, che cosa verrà dopo?
Ho capito – che poi era l’assunto (confermatissimo) di partenza – che oggi corto è tutto e corto è niente, che corto è bello (ma anche no, e in fondo va bene così), che corto è talvolta l’unica cifra possibile, anzi necessaria, per tempi che sono davvero troppo pieni, troppo veloci, troppo tutto.
Ho capito che certe cose per così dire short non finiranno mai per piacermi: non berrò mai un caffè ristretto, non farò mai un reel su Instagram, non entrerò mai, quando sono ai festival di cinema, nella sala in cui viene proiettata la solita selezione di soliti cortometraggi.
(L’eccezione, anche se sono di parte, è questo MAX3MIN, a cui gioiosamente partecipiamo anche noi di Rolling Stone, anche nella prossima edizione. Ma perché quello è un festival che si fonda solo sui corti, anzi sui cortissimi. Siamo troppo pieni, si va troppo veloci, dicevo, e allora i corti di massimo-tre-minuti sono, a pensarci bene, un’ottima risposta a questi tempi dannati.)
Ho capito che i corti che oggi non sono più corti, come li definitivo poco fa, mi piacciono moltissimo, e possono essere il vero anello mancante tra cinema e serie, nell’annoso dibattito senza risposta “che cos’è il cinema oggi?”. Ho amato Le pupille di Alba Rohrwacher (37 minuti), vedrò sicuramente alla prossima Mostra di Venezia The Wonderful Life of Henry Sugar di Wes Anderson, tratto da Roald Dahl (40 minuti), aspetto con trepidazione Strange Way of Life di Pedro Almodóvar (31 minuti, arriverà quest’autunno su MUBI).
Ho capito che non rinuncerò mai ai racconti di Flannery O’Connor, e che vorrei subito un film (sempre di 40 minuti) ispirato a un altro racconto, uno di quelli del portentoso Peter Cameron “riesumati” nell’ultima, bellissima raccolta pubblicata da Adelphi (Che cosa fa la gente tutto il giorno?, che titolo già bellissimo). S’intitola Il cane segreto, parla delle cose che non omettono nei matrimoni, dei pezzi di noi che non vogliamo svelare nemmeno a chi ci sta più vicino, delle follie quotidiane che insieme ci salvano e ci rovinano la vita. (Paul Thomas Anderson, mi stai leggendo? Ti vedrei benissimo su quest’altro tragicomico “filo nascosto”, dentro quest’altro ménage impossibile e possibilissimo.)
Ho capito, anche dai corti spesso bellissimi di MIX3MIN, che il mondo è in crisi, che abbiamo paura di tutto (delle pandemie, dei cambiamenti climatici, della politica, del sesso e dell’amore, considerarti i rapporti sempre irrisolti – a volte drammaticamente, a volte teneramente – fra i sessi). Ho capito che non ci sono più soldi, ma ci sono ancora tante idee. A volte brevissime, fulminanti. E che avremo sempre anche solo uno smartphone per provare a dire qualcosa di grande in un tempo anche piccolo, e non è che questo presente – e questo futuro – sia per forza un male.