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Short Culture Cuts #7: Voglio un festival di corti fatto solo di ricette di TikTok

Come non avere TikTok e restarne comunque ipnotizzati, quando sugli altri social becchi un video di ricette (meglio se di cucina cinese). Una storia vera (che potrebbe cambiare il futuro della cinematografia)

Foto: Disney/Pixar

Una serie a puntate, in collaborazione con MAX3MIN – Very Short Film Festival, per riflettere su cosa è, oggi, corto. Spoiler: tutto.

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Io un profilo TikTok non l’ho aperto mai. Io un profilo TikTok non lo aprirò mai. Vabbè, risentiamoci tra qualche anno quando ci ripenserò, come si ripensa sempre a tutto, su tutto, rispetto a tutti i princìpi che si credevano granitici. (No, su TikTok penso che resterò fermissimo. Ma tant’è.)

Io un profilo TikTok non l’ho aperto mai, e però TikTok è venuto da me in ogni caso, sotto ogni forma. È quella cosa di Maometto e della montagna, ma forse, visto che si sta parlando di social, Maometto è meglio non nominarlo, meglio non nominare nessuna delle cose che potrebbero offendere o far risentire qualcuno (spoiler: tutto).

Dicevo. TikTok è venuto da me che credevo di stare al riparo sul mio profilo Instagram, a mettere le corsette del cane (della cana, se no le cagnoline si offendono; no, “cagne” credo non si possa più dire, per le stesse ragioni di cui sopra) e qualche repost dal profilo di MUBI, quando vedo una bella fotina vintage di Catherine Deneuve. Povero illuso.

Instagram ormai è TikTok. È tutto un reel, una diretta, un video buffo (ma buffo per chi, per cosa). È tutto musichette invasivissime che appena apro urlo “ODDIO COS’È QUESTO RUMOREEE?!?” manco fossi mio nonno (in realtà sono mio nonno: difatti tengo sempre l’audio su muto). È tutto colori orrendi, grafichine orrende. Ripeto: è tutto TikTok. Però, in quanto TikTok, è anche uno straordinario festival di corti. Si può prescindere dal formato reel/story/vlog o come diavolo si chiamano oggi (sono mio nonno, dicevo) quando adesso si parla di short culture? Certo che no.

E allora succede che l’altra sera nella story di un’amica vedo un libro di ricette di cucina cinese. Un libro, mi dico: fino a qui tutto bene. Solo che poi ci clicco sopra. Ed entro nel tunnel della TikTok-gastronomia (o gastro-tiktokismo? o grastrotiktoknomia?) per non uscirne, credo, mai più.

Perché sì, i video della tizia che ha fatto il tal libro di ricette solo perché quegli stessi video avevano avuto successo sui social li sto tecnicamente guardando su Instagram, non avendo io un profilo su TikTok; ma sono gli stessi video montati e speakerati (scusate) per tutte le piattaforme ormai uniformate, come dicevo poc’anzi.

Mi era già successo, di restare ipnotizzato davanti alle ricette di TikTok anche se non ero su TikTok. Era un account di robe gozzissime (perdonate il milanesismo), e ci stavo dentro per minuti (decine di minuti, sommando tutti i vari video) a guardare torte farcite di qualsiasi cosa, io che non ho questa gran passione per i dolci. Eppure avrei voluto rifare ognuna di quelle cascate di cioccolata infilate dentro spirali di pan di Spagna e poi glassate in forno con tonnellate di zuccheri raffinatissimi.

Sono mio nonno, dicevo, dunque non ricordo il nome di quell’account, mentre quest’altro nuovo, quello delle ricette cinesi, l’ho prontamente seguito, e adesso voglio rifare tutti quei ravioli aperti (che invenzione meravigliosa!), tutte quelle focaccine col cipollotto, tutte quelle cose pirotecniche che ovviamente non rifarò mai.

Mi limiterò a guardare quei video ancora per qualche giorno e poi me ne dimenticherò, per scoprire, tra un mese o due, qualche altra pagina e restarne parimenti ipnotizzato. E, tra molti anni, organizzerò io un festival di corti, però fatto solo di video di TikTok, io che TikTok nel frattempo non l’avrò comunque aperto, ma – Maometto, la montagna – l’avrò sperimentato comunque, da tutte le parti. E in quel festival ci sarà una retrospettiva: le migliori ricette dei primi anni ’20, e le focaccine d’oro vinceranno l’Olio di Palma d’Oro.

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