Rolling Stone Italia

Siamo tutti Francesco Totti

Il documentario ‘Mi chiamo Francesco Totti’ di Alex Infascelli è la moviola della vita del Capitano. Ma, in fondo, anche una storia che ci riguarda tutti

Un fotogramma di 'Mi chiamo Francesco Totti' di Alex Infascelli

Mi chiamo Francesco Totti – nelle sale solo il 19, 20 e 21 ottobre – è esattamente quel che si vede o, meglio, si sente. Il regista Alex Infascelli, uno degli irregolari più geniali del nostro cinema, per sua ammissione tiepido nei confronti del calcio ma tifoso della Roma per eredità di famiglia e osservatore appassionato di varia umanità, ha selezionato filmini, videocassette e highlight della carriera del Capitano per rivederli con lui accanto ma soltanto in voce, fuori campo. Il testo è in parte scritto e in parte improvvisato. A volte scarseggiano le parole o si ripetono (quante cose nella vita sono impensàbbili?), magari l’intonazione difetta – Totti si è sempre portato dietro nelle parole un disagio nei confronti del mondo – ma l’emozione è vera. «Manda indietro», ripete l’ex calciatore, e Alex esegue come il moviolista di una vecchia puntata della Domenica sportiva.

Perché ci sono Super 8 di famiglia che si credevano perduti, come quello in cui sulla spiaggia il pupo Francesco, che cammina appena, prende il pallone a calci invece di toccarlo con le mani come di solito fanno i pupi. Ci sono i volti di papà e mamma giovani, il mare, l’estate. C’è la scuola Manzoni dove Alex ha rimesso in scena il gioco della “paperella”, una specie di Space Invaders live col pallone e coi bambini in riga sulla scalinata: è lì che Totti piccolissimo scopre il suo dono e la vocazione. Ci sono i video dell’archivio (pazzesco) del fratello Riccardo, «che guidava i camion del cinema», e ogni domenica con una telecamerina filmava partite su partite della giovane promessa, coi dribbling, la polvere e i calcioni invidiosi di quegli anni ’80 ultimo spartiacque tra il calcio antico e quello moderno.

Ci sono il Gioca Jouer ballato a una festa di compleanno e Children di Robert Miles, colonne sonore casuali per niente snob, perfette per l’autobiografia di una generazione. E, nelle foto, certe mise “da calciatore” che bastano pochi anni a farle apparire disastrosamente comiche (come in quei libretti inglesi di qualche anno fa in cui si antologizzavano i più assurdi tagli di capelli dei giocatori). Ma è esattamente quello che ci viene in mente se guardiamo le nostre vecchie foto di quando Instagram e Facebook non c’erano, non c’erano i filtri che invecchiano e ringiovaniscono, la brillantezza dei colori sfumava semplicemente nella patina del tempo. «Totti siamo tutti noi», sembra dire Alex Infascelli, al quale il calcio, i suoi riti e i miti interessano fino a un certo punto. Siamo noi. Bambini nel tempo. Per questo allo stadio durante la cerimonia dell’addio al calcio tutti – ma proprio tutti – sugli spalti piangono. È irresistibile. Ogni volta.

La versione definitiva della carriera calcistica del Capitano è stata già fissata dall’omonima autobiografia di Paolo Condò uscita lo scorso anno. Totti è una piccola industria, benché un’impresa di famiglia, e non tollera narrazioni alternative e fuori controllo. Ora sappiamo chi sono i buoni (Mazzone, il presidente Sensi) e chi sono i cattivi (l’allenatore Spalletti, che si trova a gestire le stagioni finali del campione con un surplus di inutile crudeltà). Tra le bandiere e i fratelli maggiori, Bruno Conti, Giannini il capitano precedente, Cassano l’amico furioso. Tra i punti fermi della carriera lo scudetto giallorosso, i derby vinti (e quelli persi), due rigori con la Nazionale: il cucchiaio di Italia-Olanda e il finalissimo di Italia-Australia. Pure un what if, la storia parallela: come sarebbe stato il mondo se Totti avesse accettato l’offerta del Real Madrid? Non ci saranno altre scoperte, per il momento.

Migliaia di piccoli gesti enormi e meravigliosi, invece, sui campi verdi di mezza Italia. E occasioni perdute, partite non vinte, frustrazione tifosa. Il rapporto di Totti con il “popolo” giallorosso è storia verissima ma tutto sommato ricostruita a posteriori, dramma psicologico e ahinoi incompiuto rispetto all’epica di veri capipopolo come Maradona. Anzi, man mano che il fascino dei filmini di famiglia lascia il posto alla televisione e al calcio in diretta, ci si trova lungo il corso del documentario a chiedersi quale sia davvero il motore di questo racconto. Se siamo nel dominio del calcio oppure in quello della vita. Della promessa di felicità al popolo romanista (e lo scorno viceversa del popolo laziale) o della felicità tout court. Totti a mezza bocca suggerisce che il suo ruolo possa comprendersi nel Destino, e naturalmente tira in ballo anche Dio. Storia profondamente individuale e umanissima, quella del sogno realizzato di un bambino degli anni ’80, con accanto la sua famiglia, gli amici, i figli (e la vecchia battuta tenera di lui che voleva farne tanti da mettere su una squadretta di calcio). Storia velata fin dall’inizio dalla malinconia dell’inevitabile fine. «Manda indietro», ancora la voce fuori campo alla fine del documentario. Non si può. Non si può più. Nero. Titoli.

Iscriviti