È corretto dire che il cinema che scorre dal dopoguerra agli anni Sessanta entra in una stagione, i Settanta, certo meno nobile, ma con qualche segnale assoluto. Cito un titolo: Amarcord. Nel 1988 all’Ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci vengono attribuiti nove Oscar. È il film, fino ad allora, più decorato a Hollywood dopo Via col vento. Trattasi di un trionfo italiano verso la fine di un decennio che il nostro cinema ha percorso faticosamente, senza picchi e lontano della nostra migliore tradizione. La misura di questo assunto sta nei riconoscimenti internazionali. L’Oscar, la Palma e il Leone d’oro sono premi spesso messi in discussione per ragioni etniche, artistiche, di marketing e di convenienza politica, tuttavia nel loro insieme rappresentano una legittimazione unanimemente accettata. Negli anni Ottanta otteniamo solo tre premi: il Leone d’oro con La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi, tutti quegli Oscar con film di Bertolucci e un Oscar come miglior film straniero a Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore.
Un cartello con nove Oscar in quel decennio sarebbe qualcosa di anomalo e sproporzionato, e illogico. Invece una logica c’è, perché l’italiano L’ultimo imperatore non è un film italiano. Non è italiano il produttore, il londinese Jeremy Thomas, non c’è un italiano fra gli attori. Un po’ di italianità è nella scenografia (Scarfiotti) e nella fotografia (Storaro), ma questi hanno a loro volta firmato opere internazionali, sono “artisti del mondo”. Ufficialmente L’ultimo imperatore sarebbe un film inglese. Dunque, se la qualità, o parte della qualità, del decennio ’80 la si misura coi riconoscimenti internazionali, è legittimo che su decine di possibilità solo due volte emerga un titolo (tutto) nostro, La leggenda del santo bevitore e Nuovo Cinema Paradiso, appunto.
In quella stagione il cinema italiano aveva perso identità, in qualche modo doveva ricominciare, recuperare qualità, soprattutto doveva farsi riconoscere fuori dai confini. Gli anni Ottanta hanno ospitato buoni titoli e bravi autori. Ma non hanno dato cittadinanza a opere per il mondo. Gli anni Ottanta sono quelli dello “smarrimento” nel senso della ricerca di nuovi contenuti, di nuova poetica, di un progetto utile e possibilmente non provinciale, e magari di tentativi di rifondazione. Una sorta di punto e a capo. Naturalmente tutto questo non è contenuto in confini precisi: una corrente finisce e un’altra ricomincia, un movimento nasce spontaneamente e si irradierà lontano, tuttavia si può affermare legittimamente che nessun movimento italiano nato in quel decennio si irradia nel mondo. Ci sono tanti autori, questo sì. Alcuni cominciano, altri finiscono.
Negli Ottanta, i grandi artisti generali, maestri di realismo, che ci hanno esportato nel mondo – De Sica, Visconti e Rossellini – non ci sono più. C’è ancora Antonioni, ma è molto stanco. Nel 1980 la sua attitudine alla sperimentazione lo porta alla realizzazione del Mistero di Oberwald, in alta definizione. Nell’82 dirige Identificazione di una donna, che riporta del grande autore solo qualche segnale sbiadito. Lo stile, l’impatto di opere come Il grido e della trilogia a cavallo dei Cinquanta/Sessanta (L’avventura, La notte, L’eclisse) sono lontani. Fellini c’è ancora e dirige. Ma anche lui ha minore ispirazione. Nei suoi film di quel decennio (E la nave va, Ginger e Fred, Intervista) dell’età dell’oro del grande artista rimane un’ispirazione grottesca discretamente riconoscibile, e una certa estetica. L’energia, l’incanto che immobilizzava i critici e il pubblico, non ci sono più. Monicelli e Risi non sono artisti generali come i nomi fatti sopra (anche se Monicelli ci si è molto avvicinato con l’estetica della Grande guerra), ma sono “registi puri”, definiamoli così, e narratori insuperabili. I loro titoli eroici – La grande guerra, I soliti ignoti, L’armata Brancaleone (Monicelli); Una vita difficile, Il sorpasso, I mostri (Risi) – sono tutti degli anni Cinquanta/Sessanta. La nostra grande stagione, quella dove eravamo prevalenti ed esportavamo, quella delle inutili tentate imitazioni da parte delle altre culture, finisce lì.
Nel processo di attesa di un ricorso all’altezza, che prevede un’involuzione, una perdita di identità e di qualità, diciamo pure peggioramento, gli anni Settanta offrivano comunque un paio di… movimenti minori. Sergio Leone a metà dei Sessanta, con Per un pugno di dollari, rifaceva le regole di un genere diventando il modello persino degli americani che quel genere lo avevano inventato. I Settanta raccoglievano quel filo e quell’idea e la rilanciavano, certo con minore qualità se il filo e l’idea non erano più di Leone. Ma non c’era solo il western all’italiana, c’era anche il poliziesco. I registi si chiamavano Damiani, Lenzi, Di Leo, Massi; gli attori Nero, Merenda, Merli, Testi. Un segnale della qualità di quei film lo dobbiamo a uno che certo fa testo: Tarantino. Negli Ottanta invece… solo individualità più o meno fortunate, mai fortunatissime, mai nell’eccellenza. I nomi sono molti e il meglio lo hanno già dato. Bellocchio è ancora giovane, ma è uscito presto, ventenne aveva già molto inventato, in qualità e personalità. Sarà una garanzia nei decenni. Lo è ancora.
Fine della prima parte