Ci sono film che, singolarmente, rappresentano un movimento. Può valere per Ladri di biciclette come manifesto del realismo italiano, oppure per Il porto delle nebbie per il cinema del Fronte popolare francese, oppure per La vita è meravigliosa come icona del cinema del New Deal, o per Il cielo sopra Berlino come modello del grande cinema tedesco degli anni ’70/’80. Dies irae è un titolo perfetto a rappresentare l’estetica e la poetica del cinema del Nord. Senza nulla togliere (soprattutto) a Bergman. Solo che Bergman… è venuto dopo, quando Dreyer aveva già aperto quasi tutte le strade. Dopo aver raccontato tutti i contesti di Dies irae (qui e qui le prime due “puntate”) – l’ispirazione figurativa, la storia, Lutero, l’espressionismo, e naturalmente il linguaggio – è importante, come chiusura, una rilettura critica e articolata del capolavoro, secondo culture diverse.
André Bazin
«Anche se per molti aspetti appartiene alla tradizione del cinema muto, Dies irae si è tuttavia concesso il lusso di utilizzare il suono con una raffinatezza altissima. Il timbro e l’intensità dei dialoghi, quasi sempre sussurrati, conferiscono alle minime sfumature il loro pieno valore e le poche grida, che interrompono questa morbidezza sonora, ci riempiono di terrore. La qualità della interpretazione sarà così più accessibile al pubblico. Il prodigioso volto di Lisbeth Movin è decisamente uno dei più interessanti dello schermo mondiale. Il personaggio della vecchia, condannata al rogo, possiede al tempo stesso il commovente realismo della vecchiezza e un non so che di sovrannaturale, che sembra emanare dalla sua stessa vecchiezza. Il pastore e sua madre sono perfetti, di fronte a loro il figlio sembra incerto e sbiadito ma il suo personaggio implicava forse questa malleabilità».
Fernaldo Di Giammatteo
«Non si tratta più, come in Vampyr, del disordine inesprimibile provocato dal terrore di un inconscio che non si vuole conoscere, si tratta di un disordine che si può vedere (e descrivere con i movimenti ondulatori della macchina da presa) e che ha due facce: l’erotismo (immerso nella sua sfumata luminescenza della natura) e la sua repressione (espressa nella rigidità dei chiaroscuri degli ambienti chiusi). Due facce che si sovrappongono sul volto della donna: non più brutalmente scavato (e odiato-esorcizzato) come quello di Giovanna, ma accarezzato con pietà, come nella sconvolgente inquadratura conclusiva di Anne, condannata (dal mistico e orrendo canto delle voci bianche) e libera».
Georges Sadoul
«Ambiguo è il finale in cui la protagonista afferma di essere una strega, dopo essere stata abbandonata dall’amante. Ma è come se Dreyer credesse alla stregoneria, come all’esistenza dei vampiri o alla resurrezione dei morti. Il film è interessante per la sua bellezza plastica. Il volto tormentato di Lisbeth Movin, l’atmosfera storica, e in qualche scena, il senso della natura. Secondo Børge Trolle, in questo film, come in tutta la sua opera “Dreyer non dubita mai, neanche per un solo istante, dell’inevitabilità della sofferenza come mezzo per raggiungere purezza e chiarificazione.” È una delle opere più caratteristiche e alte dell’autore, secondo molti anzi, il suo capolavoro, poi insuperato».
Morando Morandini
«Di altissima tenuta stilistica nella sua maestosità (Dreyer: “Non il montaggio è lento, ma il movimento dell’azione. La tensione si crea nella calma”), di grande ricchezza psicologica e sapiente rievocazione storica, è una vetta dell’itinerario di Dreyer e nella storia del cinema. Per il regista danese – al di là delle interpretazioni che se ne possono dare – la più terrificante sequenza musicale della liturgia cristiana diventa un inno alla vita e alla libertà contro il fanatismo, l’intolleranza, la cecità spirituale degli uomini».