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Storia ‘diversa’ del cinema: Il grande spot – Parte II

Testimonial celebri, generi rubati al grande schermo, modelli , da Indiana Jones al Gladiatore , pedissequamente replicati. Ciak, si… vende!

Lo spot, l’uso dei modelli del cinema per la vendita (qui la prima parte dell’excursus), è l’aspetto più naturale della collaborazione fra le due comunicazioni. Fra poco non sarà blasfemo dire fra le due arti. È vero che il racconto attraverso uno spot, contenuto in uno spazio di secondi, è complesso e impietoso, sei costretto a una sintesi che non ti consente la minima disfunzione di spazio e di tempo, ma se riesci ad esprimerla gestendo tutti gli equilibri fra immagine suono e parola, il risultato, anzi il prodotto, possiede spesso alta qualità. I creativi pubblicitari sono quasi sempre esperti di cinema, capaci di selezionare l’autore opportuno e di adeguarne linguaggio, stile, estetica, marchio al prodotto da vendere.

Verso la fine degli anni Settanta alcuni film rappresentarono tendenze spettacolari ben precise, due evoluzioni che, grazie proprio all’enorme importanza e invadenza acquisita dal cinema, non è illegittimo chiamare culturali. Erano la neoavventura e la neofantascienza. Gli eroi di questi generi sono George Lucas (Guerre stellari) e, soprattutto, Steven Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo, la saga di Indiana Jones). Indiana Jones ha dato lo spunto per una trentina di spot pubblicitari. L’astronave di Incontri è stata un veicolo di vendita per decine di prodotti. Lo stile di Spielberg è diventato un vero marchio durato alcuni decenni. Una reminiscenza efficace e non lontana è la Smart schiacciata dal piede del “jurassico”.

L’evoluzione successiva è nel nome di due autori di grande identità: Tarantino e Almodóvar. Tarantino ha dato il la a una lunga serie di filmati trash; Almodóvar, titolare di una certa grafica molto riconoscibile nei colori, ha legittimato, dall’alto della sua autorevolezza, tutta una serie di spot del versante omosex e unisex. Un altro spunto interessante è riferito ai registi “cine-pubblicitari”. Fanno testo gli inglesi e gli americani. Molti registi di cinema anglosassoni hanno una radice pubblicitaria (i fratelli Scott, Luhrmann, Lyne fra gli altri), in Italia invece avviene il contrario, molti registi partiti dal cinema confluiscono nella pubblicità, per una semplice ragione di spazio: il cinema ne offre molto poco.

Identificazione

Gli alti budget della pubblicità hanno dato la possibilità alle aziende di assumere i più importanti divi del cinema del mondo. Di Paul Newman (Barilla), Marlon Brando (Telecom), Harrison Ford, De Niro, Costner ho già scritto. Sono semplicemente i massimi divi in circolazione. L’immagine dettata da questa prima “tornata” era quella naturale che apparteneva a questi “fenomeni”, cioè il grande sogno, personalità e fascino lontani dall’uomo della strada. Rappresentavano l’identificazione col semidio, alta. La seconda “tornata”, che porta divi della stessa qualità, presenta un’evoluzione. Chiamarli testimonial non è più esatto. Sono diventati la trasposizione del target, prelevati dallo star system, diventano il vicino di casa (George Clooney nello spot Martini), il fidanzato alle prese con la propria ragazza (Ben Affleck per Morellato o Brad Pitt per Damiani) o il passeggero al quale ti ritrovi pigiato in metropolitana (Banderas per Deodoranti Lycia). Sono più simpatici, più vicini a noi, e truccati per essere meno belli. Altro esempio: Dustin Hoffman, alla sua prima esperienza pubblicitaria in assoluto, che viene in Italia per imparare a fare il caffè dal signor Vergnano, proprietario dell’omonima torrefazione. La pubblicità ha dunque realizzato una sintesi efficace, furba e intelligente: ha fuso le due identificazioni, quella bassa e quella alta, nello stesso modello.

Digressione
In sostanza ha derubricato il codice-cinema portandolo nella sfera della televisione, che è il mezzo della bassa identificazione. E qui vale una piccola digressione nell’area del piccolo schermo. Molti divi della televisione sono testimonial di prodotti. Si avvicinano all’utente, gli ammiccano, gli suggeriscono l’acquisto in nome della verosimiglianza. Un Carlo Conti può essere un consumatore di un certo detersivo, più verosimile di un Dustin Hoffman che è sì un testimonial del caffè, ma è innaturale, si presta a un gioco: certo, si presta benissimo perché è un grande attore, sa fare tutto. Il modello perfetto per un prodotto è Gerry Scotti. Ha un volto bonario, potrebbe essere un disegno buono di Disney. Non è competitivo nel volto e nel corpo, e questo gli permette di ottenere la fiducia di tutti, giovani, adulti e anziani. Una moglie sa che Gerry non entrerà in nessuna delle sue fantasie e si sente rassicurata, è come se il prodotto le fosse suggerito da un amico o un’amica; un marito sa che Gerry… non gli porterà mai via la moglie. Inoltre appare discretamente simpatico, discretamente informato, discretamente spiritoso. Tutto “discretamente”. E poi è presente, presentissimo, alcune ore al giorno: ti fa buona compagnia. Insomma, ti rassicura dappertutto. E infine, tocco strepitoso, promuove un riso che si chiama come lui. L’irresistibile Gerry. Fine della digressione.

Richiami

Negli spot recenti legati al cinema non si può più parlare di citazioni, ma piuttosto di richiami, a un genere, a uno stile fotografico. Ultimamente, alla necessità di grandiosità, si risponde con l’epicità di Braveheart o con le battaglie del Gladiatore: le schiere di barbari, tra il post-atomico e il medioevale, che si fronteggiano in una landa desolata per Capitalia, o i giocatori di rugby che giocano nel fango delle Highland scozzesi per Sasol. Sempreverdi i richiami all’oniricità del mondo felliniano, con INA Assitalia dove i personaggi di un circo si assicurano contro gli incidenti più strani: il contorsionista rimane incastrato, il mangiafuoco manda in fiamme il tendone del circo, la donna proiettile viene sparata talmente in alto da essere ritrovata solo ore dopo in cima a un albero. Poi, si leggono tra le righe apprezzamenti più o meno espliciti per uno stile di rappresentazione di personaggi, ambienti e recitazione declinati all’americana. Un po’ accorati, come le regie “dure” di Clint Eastwood (Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino), o più asciutti: uomini normali, non belli, non ricchi, ma empatici in tuta e t-shirt, come Bill Murray in Broken Flowers di Jarmusch o Paul Giamatti in Sideways.

La commedia sempre più all’italiana
Il filone del nazionalpopolare imperversa, e trova il suo miglior cliente nelle marche di telefonia. Peccato che abbia pedissequamente seguito il declino della commedia all’italiana del grande schermo. Come dire che si sono scelti i Vanzina e non i Risi, del resto, i Vanzina sono anche registi di pubblicità e non solo di cinema. Quindi, De Sica vigile con moglie e figlia di borgata per Tim; Amendola con le figlie “trucide” e saltuariamente Marini e Cecchi Gori per H3G; e, forse un po’ meglio, Ricky Tognazzi regista e attore con Neri Marcorè per Trenitalia. Gli spot per Wind di Aldo, Giovanni e Giacomo accorpano tutto il possibile. Dicendo surreale si intende dire tutto il possibile, appunto. Sono spunti anarchici di ottima qualità. Mentre l’Abatantuno di Telecom-Alice è l’italiano che più italiano non si può, dunque (in chiave cinema naturalmente) del tutto mediocre e dunque (in chiave spot naturalmente) perfettamente accessibile al target voluto, vasto. Un ultimo richiamo per i “corti” per Banca Intesa, che presentano una buona firma, Salvatores, e una grande firma, Olmi.

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