Dopo il focus sul cinema italiano, è il momento della Francia, di un movimento di qualità e ispirazione che ha inventato estetica e cultura. Il cinema francese fra gli anni ’30 e i primi ’40 è quello del Fronte Popolare: è un movimento decisivo, storico, una delle massime manifestazioni, anche in chiave di arte assoluta, del ’900. Omologabile alle grandi idee dell’espressionismo in Germania e del realismo in Italia. Con valore in più: la letteratura alta. Quel cinema riuscì nella fusione, la più nobile e difficile, fra la poesia pura e lo specifico del cinema.
Il Fronte Popolare deriva da un movimento politico, nato alle elezioni del 1936 vinte da Léon Blum, leader socialista. Blum incarnava la speranza rivoluzionaria di molte fasce, studenti, militanti della sinistra, operai, e anche frange della media borghesia. La Francia aveva accolto le idee della rivoluzione di Ottobre ed era circondata da Paesi confinanti governati da regimi opposti, il fascismo, il nazismo e, fra poco, il franchismo. Blum, sospettato di voler installare una dittatura comunista, cadde nel 1937. Ma quel breve interregno bastò per immaginare uno sviluppo umano, sociale e artistico, certo ideale e teorico, la realizzazione di un sogno. Un movimento simile, ma più consapevole e adulto, al Sessantotto.
Poi il “Fronte” perse energia e identità, rimase solo un’idea buona per essere accolta dagli artisti, anche da quelli che facevano i film. Un poeta come Jacques Prévert si sposava a un artista dell’immagine come Marcel Carné. Nel 1938 firmarono, alla regia e alla sceneggiatura, Il porto delle nebbie, un titolo eroico, un manifesto del cinema della poesia, un’opera capace di tenere insieme dei paradossi estremi, per esempio un militare in fuga, un pittore triste, un vecchio innamorato malamente di una giovane, un criminale vendicativo (trattasi di film francese, come poteva mancare il criminale): e tutti che riescono a parlare con la chiarezza dei popolani unita alle parole di poeti. E l’insieme impossibile funziona. Il tutto stretto da un’estetica di piccole luci e di nebbie profonde, di buio disperato come un limbo che ti porterà in un posto peggiore.
Il terzo testimone, perfetto, di questo film è l’attore: Jean Gabin, omologo, sul suo versante, di Prévert e di Carné. Agiscono al porto di Brest. Nella nebbia, il soldato Jean (Gabin, dunque nome vero e di finzione) cammina verso una locanda su una lingua di terra nebbiosa nelle acque nere del porto. Entra, ci sono degli avventori, il padrone con una chitarra in mano, un vecchio bevitore. Arriva un nuovo ospite, è conosciuto, è un pittore. Jean è seduto a un tavolo spoglio, in un angolo. Il pittore comincia a parlare: “C’è gente stasera, bella gente… ma la gente è come è, losca e criminale quanto basta, ma dicono che al mondo ci siano anche delle belle cose… dipingerle? Ho provato, ho dipinto dei fiori, delle giovani donne, dei bambini, era come se dipingessi il delitto con tutto quello che nasconde. Io vedrei un delitto in una rosa… oppure, che c’è di più semplice di un albero? Eppure, quando dipingo un albero provo uno strano senso di fastidio, forse perché c’è qualcosa o qualcuno nascosto dietro quell’albero. Dipingo senza volerlo le cose nascoste dietro le cose. Uno che nuota per me è già un annegato… sì, ma adesso tutto si sistemerà. Il giro è fatto, l’anello è saldato. E voi…(rivolto a Gabin) sono sicuro, che se vi facessi il ritratto… vi farei con le mani in tasca, di notte, tra la nebbia…”.
Gabin risponde: “Io trovo che siete un po’ troppo complicato. Ma adesso, basta basta basta (arrabbiato), tutte chiacchiere, una parola tira l’altra poi arrivano i paroloni, mi rompono le scatole a me i paroloni… e sta’ zitto, sta’ zitto che parli a vanvera, mi scaldo ma non ho bevuto, testa di cavolo… no, non ho bevuto, però non ho mangiato da due giorni. È divertente, no? Sai che bel tatuaggio farsi scrivere sulla pancia: buffet freddo?”. Interviene il padrone: “Non vi danno da mangiare nell’esercito?”. “E a te cosa importa?”. “Bastava dire che volevi mangiare un boccone, non era difficile”. “Quando si ha fame”, dice Gabin, “si dovrebbe dire ‘Ho fame’ e tutto si aggiusterebbe, invece si sta zitti per orgoglio”.
L’estetica è di luci e di ombre, l’eredità dell’espressionismo è inalienabile, ma i francesi la rifanno secondo la loro cultura, cambia la pittura, il gotico prevalente diventa un’istantanea più realistica. La mediazione, grazie a quei talenti, naturalmente riesce. L’artista trasmette il proprio dolore astratto, una dialettica esistenziale che fa parte di quel momento storico, ambiguo e confuso. Di certo c’è solo il dolore. Ma quello di Gabin è il dolore del popolo, vero, serrato, si tratta di fame. E Carné-Prévert traducono, attraverso l’immagine perfetta del regista e la poesia, quella, doppia e altrettanto perfetta, dello scrittore. Jean incontra Nelly (Michèle Morgan), entra l’amore ma a quei film non poteva geneticamente appartenere il lieto fine. Il dramma, i drammi, si chiuderanno implacabili. Nelly pronuncia, anche lei, la frase perfetta per quel contesto: “Se torno indietro sarà terribile, come sarà terribile se non lo faccio”. Il porto delle nebbie (Le quai des brumes) è un’opera d’arte completa, fa testo. Senza quell’opera, al cinema e alla cultura mancherebbe una parte vitale.