Questa è una storia “diversa” del cinema. Aggiungo una didascalia che mi riguarda: “dalla parte del pubblico”. Che non significa chiave volgare, significa chiave rispettosa, perché non esiste, davvero non esiste, in tutto il tempo del cinema, un capolavoro autentico proiettato in una sala semivuota. “Dalla parte del pubblico” non vuol dire dalla parte di Boldi e De Sica, gente che riempie le sale con battute come “Sono l’ottavo nano, Segolo” facendo parte, di fatto, non del cinema ma un di prodotto solo per quel mercato e solo per quella funzione. Significa anche l’altra faccia della medaglia: ambienti underground-con-tessera abitati da quattro cinefili delusi e repressi-da-ideologia disposti nei quattro cantoni o da critici a loro volta “repressi” che non ridono e non si emozionano perché ormai è sufficiente pensare di ridere e di emozionarsi.
Dalla parte del pubblico è un avvallo di ciò che il pubblico buono ha già capito. Dunque ho indicato Boldi&De Sica come prodotti da sala stracolma, e indico un Tsai Ming-liang come prodotto da sala vuota. Quest’ ultimo è sospinto da una certa “moda critica”: dunque non solo va visto ma andrebbe anche apprezzato e… vergognati se non te lo fai piacere, perché questa è l’indicazione di chi vorrebbe far testo. Prodotti opposti della stessa medaglia, appunto. Cappello a cilindro, Tempi moderni, La grande illusione, Via col vento, Amanti perduti, Ossessione, Il porto delle nebbie, Notorious, Ladri di biciclette, Viale del tramonto, Cantando sotto la pioggia, Il cavaliere della valle solitaria, Il posto delle fragole, Sentieri selvaggi, La donna che visse due volte, Lawrence d’Arabia, Amarcord, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Il padrino, Apocalypse Now, Toro scatenato, Manhattan, Lisbon Story, Tutto su mia madre, Fratello, dove sei?, La stanza del figlio, Il signore degli anelli (il primo)… estratti a caso dalla memoria immediata, senza indugi e mediazioni, non erano proiettati in sale semivuote.
Il discorso “critica” è articolato e complesso. L’assunto semplificato è che il comune utente del cinema vede un film, lo gradisce e il giorno dopo la critica lo informa che il film era insignificante. Insomma, se quel film gli è piaciuto l’utente è… inadeguato. Oppure il contrario: la critica beatifica un titolo che ha annoiato a morte il comune utente. Nella premessa, proponendo la didascalia di Farinotti e del Farinotti “dalla parte del pubblico” e citando quei titoli ho già fatto la mediazione. Ho dato un giudizio. Del resto il ruolo della critica è… innaturale. È una tesi semplice, e naturalmente va intesa come tendenza prevalente, perché ci sono scrittori di cinema che hanno l’intenzione e la filosofia corretta, informano e rapportano, che non si ritengono profeti titolari di verità esclusive e dispensate dall’alto. Il cinema, come la scrittura, la musica e le arti figurative, formula la sua proposta. A ciascuno la proposta arriva secondo sentimento e cultura. Si pone nella coscienza e lì fa il suo lavoro. Porta pensiero, indicazioni, magari dolore, magari felicità. Ma il rapporto è in prima persona, non sono ammessi intrusi che si inseriscano col loro duplice ricatto: devi sentire e pensare come loro, altrimenti sei uno sprovveduto. Se un’opera ti deve essere spiegata da qualcuno, non sei tu che non l’hai capita, è l’opera che non si è fatta capire. È da trascurare. E così torniamo, di nuovo, alla mediazione di prima. Credo che questa sia dunque una chiave importante, e garante. Lo spero.
Questa storia “diversa” non procederà per temporalità e cronologia. Sarebbe davvero inopportuno, perfettamente inutile, proporre una storia che partisse dalle officine Lumière (1895), per passare attraverso il muto italiano, i comici americani (sempre muti), il “faticoso” cinema russo (sempre muto), salire col Cantante di jazz primo “parlato” (1927) e poi il Fronte popolare, e poi il Neorealismo, eccetera. Già troppo fatto. E la lettura non reggerebbe, si passerebbe oltre continuamente. Questa storia andrà per analogie e contrari, e in funzione di ciò che il cinema, nel tempo, ha lasciato, ha fissato, ha reso vivo e presente. Il cinema secondo la prospettiva di questo tempo. E secondo il tempo che passa e che (quasi) tutto screma, sfuoca e appiattisce; ed è un tempo intollerante e impietoso, che risparmia solo l’essenziale, risparmia ciò che vale la pena. Guarderemo, naturalmente, a tutto il cinema, ma privilegiando proprio quel “quasi” che ho messo fra parentesi. Una certa parte della nostra educazione sentimentale e (ma alla pari) intellettuale viene da quel “quasi”. Il tempo ha fatto giustizia. Oliver&Hardy, ignorati o “criticamente” disprezzati, sono vedibili adesso quasi come allora. Chi l’avrebbe detto allora? È un’estremizzazione, ma vale. Dunque storia del cinema secondo: applicazione e utilità vera, testimonianza viva, segnali, echi ed eredità risolti e consolidati, estetica e modelli sempre comprensibili. Con un assunto, mio, discrezionale, “diverso”: il cinema, nella sua prima opzione, è evasione.
Negli Allegri eroi, noto anche come Allegri scozzesi, siamo nel 1935, Stan e Oliver sono distaccati in India, soldati di Sua Maestà. Indossano il kilt e sono… Laurel&Hardy come li conosciamo, gag e tutto il resto. Hanno l’incarico di raccogliere la spazzatura in un bidone. Sono muniti di un bastone a punta per le cartacce. Cominciano il lavoro. Da qualche parte, una banda militare intona una ballata scozzese. I due cominciamo a muoversi al ritmo della musica, girano intorno al bidone, si incrociano, si fanno dei cenni, poi i movimenti diventano ballo. E il ballo li distrae dal compito. Sopraggiunge lo storico antagonista, il baffuto arcigno James Finlayson, qui nelle vesti di un sergente. Hardy lo vede e se la dà a gambe; Stan, ignaro, continua a ballare, sempre più compreso, sempre più eccitato. Mostra il sedere al sergente, lo prende per mano, lo guida in un paio di passi, fa una promenade in avanti verso l’obiettivo aprendo e chiudendo le gambette magre. Poi si accorge del “cattivo” e anche lui se la dà a gambe, inseguito dal sergente. Laurel supera di slancio una vasca piena d’acqua, mentre l’inseguitore ci cade dentro, poi raggiunge il compagno che si è già appostato davanti alla prigione, entrano marciando nella cella, chiudono la porta, buttano via la chiave e continuano a ballare al suono della banda. Trattasi di cinema. Del cinema. Alla coppia non serve altro che… Laurel&Hardy. Non parlano, muovono quei corpi senza grazia con grazia infinita. Si rapportano con chi li guarda come nessun altro. Il poco di cui hanno bisogno non te lo spieghi, è pieno di misteri. È l’incanto non misurabile del cinema.
I miei studenti della Scuola Nazionale del Cinema e dell’Accademia di Belle Arti di Brera – dunque attitudini, culture e destini diversi – hanno guardato questa sequenza con sconcerto e sorpresa, prima di esplodere con un applauso alla fine. Laurel&Hardy, quasi sconosciuti, si accreditavano come una possibilità di incanto mai esplorata. La generazione che crede che il cinema cominci con Pulp Fiction si è scontrata col Cinema Assoluto, non lo ha capito ma lo ha intuito, e lo ha usato. E, per un momento, ne è uscita felice. Laurel&Hardy erano esportati in tutti i continenti, anche in zone lontane e nascoste, quasi estranee al cinema, divertivano tutti ed erano amati da tutti, senza doppiaggio, e anche la gente dei grandi ghiacci e delle grandi sabbie si divertiva quando, incidentalmente, poteva vederli. Un sortilegio che appartiene a loro e a pochi altri, ma soprattutto a loro. Quando mi si chiede una citazione, un ricordo, una classifica, senza rincorsa, senza pensiero, è questa la sequenza che la memoria richiama e che si impone senza esitazione. Questa storia del cinema parte da loro, Stan Laurel e Oliver Hardy.