Il concetto “corsi e ricorsi” si applica alla perfezione al cinema tedesco. Il cinema non può essere stralciato dalla qualità generale della cultura tedesca, prevalente nella prima parte del Novecento. L’Istituto di arti e mestieri del Bauhaus (1919-1933) riscrisse i termini dell’arte evolvendola verso l’applicazione pratica e rifondando molte estetiche: l’architettura, l’arte figurativa, la grafica, il design. La scuola diretta da Gropius cercò, e trovò, modelli di vera arte applicata, che si imposero all’epoca e finirono per durare per sempre. Quasi parallelamente (dal 1905) la Germania produsse il movimento espressionista, rivoluzionario, fondamentale, concreto e vivente, di cui ho già scritto. La cultura tedesca, tradizionalmente, si propone per intuizioni ed evoluzioni che cambiano lo stato delle cose. In questa chiave è doveroso un altro riferimento: l’invenzione del romanticismo in letteratura, il famoso movimento della “Tempesta e impeto”, lo Sturm und Drang che stravolse tutti i codici dando il là, di fatto, alla letteratura moderna. Il titolo eroico è I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe.
Romanticismo, dolore, tempesta e impeto, contrasto estetico e contrasto tout-court, gotico, estremo, visionario, non comunicazione, sessualità, la parola e il silenzio, il chiuso e l’agorà, la coscienza e l’inconscio, il viaggio, il simbolo e la metafisica, l’immagine muta. E poi il film e una costante prevalente che verrà: il film come storia del film stesso e come metafora di tutto. Tutta questa massa, questa “furia”, dovette affrontare l’anomalia nazista, un intervallo che letteralmente fermò la cultura tedesca, in Germania per lo meno, perché molti talenti, nel ’33, con l’avvento di Hitler, lasciarono il Paese e furono attivi altrove, soprattutto in America. Dunque dopo il corso espressionista, il cinema venne murato dal regime e dalla guerra, ma la vitalità irresistibile di quella cultura rimase solo in apnea, si mimetizzò in un letargo vigile e poi, dopo la debita preparazione, sbucò come un fiume carsico. Erano gli anni Settanta. I due talenti prevalenti che avrebbero riaperto il ricorso, un grande ricorso, si chiamavano Wenders e Fassbinder. Con un segnale all’altezza dell’attitudine e della mistica del cinema: erano coetanei, nati nel ’45, quando finiva la guerra, finiva Hitler, e la Germania poteva ripristinare il suo ruolo di grande potenza dell’arte e della cultura.
Il testimone massimo di quella corrente è Wim Wenders, che può essere senz’altro ritenuto un inventore di cinema, un legislatore, della qualità dei grandi maestri del passato. A Wenders naturalmente appartiene la genetica della cultura tedesca, alla quale unisce una formazione composta e intensa, e appropriata, se nei suoi anni decisivi lo troviamo a Parigi e poi in America. Il cinema americano diventa parte integrante della sua dotazione, così come la musica rock. Il tutto, naturalmente, nella giurisdizione di un talento assoluto. A Wenders appartiene, dall’inizio, davvero tutto il cinema, il corto, il lungometraggio, il documentario. Il film finisce per diventare, nel percorso artistico del regista, un micromondo complesso e ricco. La storia della fatica su un film è la storia della fatica della vita. Il linguaggio, i movimenti della macchina, sono anche il viaggio dell’umano, il cui compito e il cui destino è sempre in divenire, mai prevedibile e quasi mai amico.
A Wenders il viaggio interessa molto: si farà conoscere come autore del mondo grazie a una “trilogia della strada”: Alice nella città (’73), Falso movimento (’74), Nel corso del tempo (’75). L’intento del documento estremo lo porta a filmare in diretta la morte del grande regista Nicholas Ray. Ma l’opera che lo consacra artista generale è Il cielo sopra Berlino del 1987. La città è ancora divisa dal muro, la sofferenza, di tutti, è inevitabile e tattile, ma tutto è sì doloroso, ma anche umano. E così un angelo rinuncia al suo status per diventare umano: certo il dolore è lì ed è aggressivo, ma forse Berlino è anche capace di produrre amore, un amore che valga la pena. Il linguaggio, l’estetica multicolore del film, il racconto, le indicazioni, le parabole, l’approdo e i simboli pongono questo film nella memoria indispensabile del cinema.