Due concetti, opposti: la miglior regia è quella che non si vede; la regia deve vedersi. Nel momento in cui la regia prevale sul contenuto, ecco che il cinema dichiara il proprio linguaggio. Qualcosa di autonomo che si evolve rispetto alla pura rappresentazione della storia. Ci sono registi che si applicano a una storia e cercano di raccontarla nel miglior modo possibile. Ce ne sono altri ai quali preme soprattutto di imporre il proprio contrassegno. Quando David Selznick acquistò i diritti di Via col vento da Margaret Mitchell, si trovò una storia perfetta. Bastava aderire al romanzo. Assunse George Cukor, regista elegante, salottiero, più propenso a gestire i dialoghi – soprattutto fra donne – che le scene d’azione. Lo licenziò quasi subito. Poi provò Sam Wood, un duro, forse troppo: depennato. Poi gli proposero John Huston, ma il produttore disse no a priori: “È un autore, farebbe un film a sua immagine, mentre voglio che sia a immagine del romanzo”. Huston, in effetti, era un autore. Alla fine Selznick si affidò a Victor Fleming, che sapeva raccontare bene, con efficacia e fantasia, e seppe rispettare il testo. Il risultato fu il film dei film, rimasto intatto attraverso i decenni, nove, finora.
Che il cinema si accreditasse una propria identità artistica evoluta e complessa, che esigesse un proprio linguaggio, che intendesse diventare “arte”, era più che legittimo. Il pericolo era l’abuso del linguaggio, ma poteva rientrare in un fisiologico processo di assunzione e di crescita. Si trattava di trovare la giusta mediazione fra i movimenti della macchina, gli stacchi, e la valorizzazione migliore dei caratteri. Linguaggio era strettamente legato alla scelta d’autore. Un regista che intenda applicare il proprio marchio in modo evidente, a fuoco, cercherà di trasformare la storia, il dialogo e i caratteri, secondo la propria cultura e tecnica, ma soprattutto cercherà di illustrare sé stesso attraverso il linguaggio. Non è una via facile, si procede su un confine dal quale si può scivolare nel grottesco, o banale, o di maniera.
Un regista esemplare in questo senso è Robert Altman. Tutto ciò che toccava Altman doveva diventare Altman. C’era una serie western culto, Bonanza, nata all’inizio degli anni Sessanta. Era la storia dei Cartwright, una famiglia del Nevada che possiede un ranch immenso. I temi sono quelli del western, ingenui, semplici, monocordi, il buono e il cattivo, la prateria, le mandrie e gli indiani. La serie procedeva benissimo, coi suoi codici sicuri, finché nel 1982 la produzione la affidò ad Altman. Il regista aborriva tutto ciò che era codificato, anche se garanzia di successo, così cambiò tutto. I personaggi divennero caratteri grotteschi, con battute metropolitane, l’ironia dominava tutto l’episodio, e la musica non era più il fraseggio epico del genere, ma un continuo scherzo che smontava ogni situazione. Un disastro. Altman fu mandato via. Ma Altman non era uno che si arrendesse, andava dritto per la propria strada. Così rilanciò la sua attitudine di auteur e mirò al bersaglio grosso, sempre al western ma sul grande schermo. E firmò film che decostruirono (parola usata dalla critica prevalente) il western. In realtà lo umiliarono e lo distrussero, parole usate da me.
Tutto ciò che di avventuroso, positivo, epico e felice c’era in quei film, Altman lo nascose e capovolse. Così Buffalo Bill, massimo mito americano, nell’altmaniano Buffalo Bill e gli indiani divenne un cialtrone con mania di onnipotenza, disonesto con parrucca. E già che c’era Altman si dedicò anche alla decostruzione del poliziesco. Nel ’73 diresse Il lungo addio, uno dei capolavori del grande Raymond Chandler. È una storia magnifica, non perfettibile, nei caratteri, nelle atmosfere e nel plot. Ma Altman la fece a propria immagine e somiglianza, appunto. E Il lungo addio non divise la paternità fra l’autore cartaceo e quello del film, divenne proprietà esclusiva del regista. Peccato, anche perché l’originale era troppo migliore della rappresentazione filmica. Tutto questo era una questione e un problema, anche di linguaggio. Altman è un regista cosiddetto dissacrante, e non c’è dubbio che abbia dissacrato.
Linguaggio significa anche montaggio. Un modello efficace a rappresentare l’evoluzione in quel senso è il musical. Due citazioni esemplari: nel 1935 Fred Astaire, nel film Roberta, cantò e ballò I Won’t Dance, l’incalzante canzone di Jerome Kern. Il regista Seiter piazzò Astaire in mezzo al set, puntò la cinecamera e non la mosse più per tutti i 5’ e 15” del numero. Un regista contemporaneo sarebbe a disagio di fronte a quella sequenza. Avrebbe problemi di “linguaggio”, si sentirebbe sminuito, inutile, non protagonista. Che merito avrebbe semplicemente a piazzare la macchina e poi guardare il cantante-ballerino che fa tutto da solo? Nel 1977 Alan Parker, nel suo Saranno famosi, fece molte riprese di ballerini in azione. Famosa è quella nel centro di New York dove i ragazzi ballano Fame saltando intorno e su e giù dal taxi. La scena è spezzata ogni cinque, sei secondi. La ragione è, ancora una volta, il linguaggio. In realtà, la prima ragione è… Fred Astaire che non c’è. La sequenza di Roberta è un piacere completo e sottile per la vista e l’udito. Fred davvero basta a sé stesso e ha anche l’energia per non staccare per tutto quel tempo. Ma Astaire era uno dei più grandi personaggi dello spettacolo del mondo. “Tagliarlo” non significava cambiare istantanea e aggiungere ritmo, significava semplicemente peggiorare.
Nel 2001 Baz Luhrmann dirige Moulin Rouge! I numeri musicali sono sincopati con tagli ogni secondo, secondo e mezzo. Una frenesia che diventa angoscia. A quella frenesia ne viene applicata un’altra: gli inserti estemporanei di artisti diversi, senza legame e senza armonia, così Satine entra in scena dall’alto cantando Diamonds Are a Girl’s Best Friend (Marilyn) per contaminarlo con Material Girl (Madonna). Ewan McGregor riprende più volte Your Song di Elton John, con stralci dei Queen, Sting, Paul McCartney. Il tutto, in un delirio. Anche questo è “linguaggio”, lo stile ad aggiungere, figlio della comunicazione compressa ed esplosiva degli spot e di certi video, che dovrebbe aumentare l’intensità di pari passo coi decibel. Ma, ancora una volta, in Moulin Rouge!, semplicemente, non c’era Fred Astaire. E certo Luhrmann non si è limitato a piazzare: ha lavorato, freneticamente. Ha fatto l’autore.
Il linguaggio come pertinenza esclusiva dell’arte cinematografica esiste quasi dal suo inizio. Negli anni Dieci Griffith già cercava, e trovava, un certo linguaggio del cinema. Ma il grande salto, la definizione e la filosofia del linguaggio del cinema si perfezionava verso la fine degli anni Cinquanta, quando un gruppo di critici francesi decise che il protagonista assoluto non doveva essere il film, ma chi lo dirigeva. Quel movimento si chiamava Nouvelle Vague.
Fine della prima parte