Il Western (W maiuscola) è americano e finisce, come movimento – poi ci saranno altre individualità – nei primi anni Sessanta. Una certa corrente storica indica in L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1961) l’ultimo titolo “eponimo”. Dunque Ford cominciava (Ombre rosse), Ford chiudeva. È legittimo che sia così. Altri western classici sarebbero stati prodotti successivamente, ma erano singoli segnali, opere di autori che avevano operato nelle stagioni eroiche e che continuavano a fare… il loro mestiere. El Dorado di Howard Hawks, del ’67, è uno di quei titoli, l’anziano grande maestro del genere non aveva perso l’attitudine.
Quando sopra ho scritto “americano” non era un concetto scontato, perché a metà degli anni Sessanta, casualmente, nasceva un movimento importante, aggressivo, che avrebbe lasciato segni profondi. Sergio Leone girava a Cinecittà un western dai toni strani, non decifrabili, ma con codici che si sarebbero rivelati efficaci. Il titolo era Per un pugno di dollari (1964). Il carattere più importante era il protagonista, Clint Eastwood, pressoché sconosciuto. Il poncho, un brutto cappello, il sigaro, un’unica espressione, pochissime parole e, naturalmente, la Colt. Clint, eroe spurio, un po’ più buono che cattivo, niente a che vedere con Gary Cooper. Un altro contrassegno, certo decisivo: la violenza.
La formula venne perfezionata nei titoli successivi, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il West. Leone, autore talentuoso, certo creò uno stile. Solo che… distrusse il genere. Eastwood sull’abbrivio del maestro diresse e interpretò una serie di western americani, ma erano “americani alla Leone”. Ci furono anche autori importanti, accreditati, come Sam Peckinpah, che firmarono altri western americani ma non riuscirono a prescindere dal modello di Cinecittà.
Poi venne la stagione cosiddetta “adulta” del genere, dove il West e il western coincidevano. Fra il ’69 e il ’70 uscirono nelle sale Il piccolo grande uomo, Un uomo chiamato cavallo e Soldato blu. Tutto veniva ribaltato. Gli indiani recuperavano la loro identità storica, di popolo oppresso e sterminato. Ho già detto di Custer, che divenne il modello di quella nuova cultura: da eroe a sterminatore. Quel momento, quei titoli rappresentano, insieme alla mutazione chimica del genere, la fine del suo declino. La fine in assoluto.
Era tale la storia del western, il suo appeal, quel segmento magnifico dell’avventura, che Hollywood, e poi altre sedi, di tanto in tanto produssero un titolo. Paradossalmente, quando il western non era più un genere ma promemoria casuale, ecco che l’Academy, cioè gli Oscar, gli diede quella legittimazione, col già citato Balla coi lupi (1990) di e con Kevin Costner. Si tratta di un film certo importante, con benemeriti sforzi verso la verità, a cominciare dalla lingua che parlano gli indiani, cioè la loro. Costner firmò un documento che, pur ispirandosi a certe atmosfere di Ford e anche di Leone, riuscì a porsi con un suo preciso e profondo linguaggio. Ancora una volta si raccontava del tramonto della razza rossa, non poteva mancare la violenza, ma prevalevano la nostalgia e il rispetto per una civiltà di ingenua e naturale purezza. Con un’opportuna, ben trasmessa, indicazione ecologica. Costner non sarebbe mai più stato così bravo.
Nel 1992, altro Oscar assoluto con Gli spietati di e con Clint Eastwood. Era un film “cattivo”, dissacratore estremo del mito normale del western americano. Una sorta di Leone “pantografato”. In quel film Eastwood è il campione dell’eroe secondo il western evoluto, che rappresenterebbe la realtà del West. Lo vediamo dibattersi nello sterco di maiale all’inizio, mancare un barattolo con la pistola pur sparando una decina di colpi. Vediamo che si è talmente imbolsito da non riuscire a montare a cavallo. E quando spara col fucile a uno dei ricercati, gli ci vogliono tre colpi anche se il bersaglio è immobile. E durante il film veniamo a sapere che ha ucciso donne e bambini, “… ma ero ubriaco”. Eppure qualcuno scrisse che “qui si racconta il West com’era”.
Un altro recente tentativo-western è il remake. La rivisitazione di una storia secondo il linguaggio e i caratteri del cinema attuale. Una formula che col western non funziona. Una mediazione fra nostalgia e mercato. Davvero esemplare in questo senso è Quel treno per Yuma (2007), con Russell Crowe e Christian Bale. Il titolo è una sintesi precisa ed efficace e complessiva di quanto ho detto sopra. Non resta che riprodurla. Chiusura opportuna della vicenda del cinema dell’Ovest.
“Remake” non significa quasi niente. Remake di un western non significa niente. L’“originale” è del 1957, è semplicemente di cinquant’anni più vecchio, e non riesce a mandare segnali o echi, a lasciare eredità. È tutto troppo lontano. Allora c’era il “western”, coi suoi codici semplici, reiterati, banali e magnifici e col finale rassicurante. C’erano Glenn Ford e Van Heflin, la musica di Tiomkin e la voce di Frankie Laine, c’era il buono e c’era il cattivo che poi era anche lui buono. Soprattutto c’era l’eroe, quell’“eroe” che nel cinema di oggi, e non solo nel cinema, è soltanto uno da sfottere. Adesso il western è un genere desolato. Da allora è cambiato il pubblico, il cinema, è cambiata la chimica. È cambiato tutto. Allora valeva una storia semplice, un unico segmento. Adesso ci sono almeno altre tre o quattro indicazioni. Parlano, parlano, spiegano.
Il contadino Evans (Bale), che trae una vita durissima per sé e la famiglia dal piccolo ranch che sta per perdere per i debiti, accetta, per duecento dollari, di fare da scorta per portare il pericolosissimo Wade (Crowe) alla prigione di Yuma. La scorta, braccata dai compagni del bandito, si assottiglia. Nel viaggio i due cominciano con l’odiarsi, continuano col rispettarsi, finiscono (quasi) amici, anche se il contadino non rinuncia al suo compito, anche quando rimane solo senza alcuna speranza di caricare il prigioniero su quel treno delle tre e dieci. Nel frattempo il figlio maggiore di Evans è costretto a crescere in fretta e a diventare uomo nel dolore, e la faticosa integrità del contadino ha finito col conquistare il bandito.
Se si dimentica il classico di Delmer Daves, se lo si lascia vivere autonomamente, il film di James Mangold è un’intensa avventura, un po’ troppo spiegata. Col paesaggio che diventa “attore” (sì, come allora), con una violenza che non deborda, e con qualche citazione di Leone, che Crowe (a suo agio, come dappertutto) ha definito “il vero grande maestro del western”. Con buona pace di Ford, Hawks, Mann e dello stesso Daves.
Un remake recente riguarda uno dei titoli apicali del genere, I magnifici sette, del 1960, di John Sturges. Il remake è del 2016, firmato da Antoine Fuqua. A fronte del carismatico Yul Brynner e dei suoi compagni, gente come Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, troviamo un gruppo di “caratteri” lontanissimi da quella qualità e da quell’impatto. Cito il capo, il nero Denzel Washington, certo ottimo attore, ma che si muove e parla insieme ai suoi come se fossero a New York o Chicago. Un amico dei western, quelli veri, trova questo remake qualcosa di… appena sopportabile.
Accade, nelle stagioni recenti, che il western sia tornato, di prepotenza, sui network. Eppure sembrava un genere superato, quasi dimenticato. Invece se agisci sul telecomando, dopo tre o quattro passaggi ecco un film western. E la proposta è larga, decisamente completa. Comandano due cicli importanti: Wayne e Eastwood. Inoltre vengono proposti e riproposti i grandi classici: da Un dollaro d’onore (di Hawks con Wayne) ai Magnifici sette (Sturges, Brynner), e Sentieri selvaggi (Ford, Wayne), L’uomo di Laramie (Mann, Stewart), Giubbe rosse (DeMille, Cooper). E sono solo alcuni. E non manca la proposta dei cosiddetti western B movie americani. Che non presentano la qualità dei superclassici ma sono comunque opere dignitose, grazie a un marchio garante,: Hollywood. Vediamo e rivediamo anche i western nostrani, dai titoli importanti di Sergio Leone a una sfilza di figli degeneri insopportabili.
Naturalmente anche nell’era recente il western sussiste, anche se è lontano dagli sfarzi della sua epoca d’oro. Ci sono buoni titoli anche recenti. Ne cito uno, Appaloosa (2008) di e con Ed Harris, fra i… non molti. Ma sono… un’altra cosa. Non posseggo gli elementi per conoscere i numeri di gradimento di questa vasta proposta. Ma se le emittenti insistono nel programmare questi film occorre pensare che il gradimento ci sia. E che sia remunerativo.