Ribadisco l’assunto: il giallo si addice alla Gran Bretagna. Segue un altro assunto: in principio era Arthur Conan Doyle. Verso la fine del secolo scorso, inventò il personaggio di Sherlock Holmes. Sir Conan Doyle morì nel 1930. Qualche anno prima aveva già toccato il cinema, assistendo ad alcune versioni di diverse lunghezze, pellicole tedesche, americane, danesi, francesi, naturalmente inglesi. Insoddisfacenti.
Nel 1931 l’attore Clive Brooke fu scelto per fare il detective in Sherlock Holmes e la donna ragno. Si comportò bene. Non era l’inizio di un trionfo, era solo l’annuncio, perché il film non riempì le sale e neppure sedusse i critici. Solo che Conan Doyle non lo vide, era morto l’anno prima. Ma nel 1939 un attore che sembrava l’esatta ispirazione dello scrittore, Basil Rathbone, diede corpo e volto al detective inglese e diede il via a un vero “serial”, ben 14 film. L’Holmes di Rathbone, accompagnato dall’immancabile dottor Watson, è diventato il perfetto disegno del detective, una specie di marchio universale che potrebbe figurare su una carta o un logo che riguardi in qualche modo il giallo. Il disegno è questo: il profilo di Rathbone, il suo riconoscibile berretto, il particolare cappotto, la pipa e, per un ulteriore elemento di piccolo paradosso, la lente d’ingrandimento. Il disegno che, appunto, venne tradotto dal cinema.
La serie di Holmes secondo Rathbone, e secondo Nigel Bruce che impersona Watson, è tornata familiare al grande pubblico grazie a un’opportuna proposta della Rai, che nel 1974 ha curato i ridoppiaggi. Ebbene, si tratta di film vivissimi, con uno stuolo di seguaci ultrafedeli. La chiave di questo successo fu proprio… il cinema secondo una delle sue filosofie più vilipese, le riduzioni. L’Holmes dei romanzi di Conan Doyle agiva nella Londra vittoriana, fra veleni, carrozze e pugnali. Il regista Roy William Neill realizzò invece un’intelligente operazione di restyling portando il detective a quei giorni e, visto che c’era la guerra, facendo adattare alcuni copioni in quel senso. Il bianco e nero (quel bianco e nero), l’irresistibile e avvolgente fascino delle brume londinesi sia vittoriane che del periodo bellico, la seducente pratica analitica di Holmes e la simpatia semplice e maldestra del dottor Watson furono gli elementi della felice operazione e di quel successo perenne. Holmes, che è un uomo di straordinaria cultura, conclude quasi sempre i film con una considerazione piena di profondità e di poesia, poi, malinconicamente, viene avvolto nella bruma col suo inseparabile amico.
Produco uno stralcio su Holmes, dal dizionario Farinotti: “… Holmes era uscito dalle pagine, e diventato talmente vivo che finì davvero per abitare la casa al numero 221 B di Baker Street. Quando lo scrittore scelse quell’appartamento in quella via, si preoccupò di indicare un numero che non esisteva (i numeri civici arrivavano fino al 100). In un riordino successivo il 221 B fu introdotto. Divenne sede di una società immobiliare, la Abbey Road Building, che si vide invasa dalla corrispondenza inviata a chi… non esisteva. Tuttavia la società la prese bene, all’inglese, anzi, cavalcò la vicenda ricavandone una pubblicità gratuita certamente efficace. Così nel 1999 per riconoscenza sponsorizzò la statua di Sherlock Holmes nella stazione della metropolitana di Baker Street. Ma non basta, diciotto numeri più avanti, al 239, esiste il museo Sherlock Holmes che riproduce esattamente la casa del detective così come l’aveva immaginata l’autore. Tutti elementi che dovrebbero determinare la purissima immagine inglese di Holmes mettendolo al riparo da tentazioni revisionistiche. Dopo Basil Rathbone, grandi attori sono stati Holmes, da Roger Moore a Christopher Lee, a Peter O’Toole a Charlton Heston, solo ricordandone alcuni. C’è stato il solito tentativo di ribaltamento in Senza indizio, dove l’idiota è Holmes (Michael Caine) e l’intelligente è Watson (Ben Kingsley). Disney si è ispirato a Holmes per Basil l’investigatopo. Anche la fantascienza non ha risparmiato il detective: nella serie Star Trek l’androide Data impersona proprio Sherlock. Povero baronetto, se avesse saputo…”
La trasversalità, la vitalità, il sortilegio, l’essenza perenne, l’immortalità di Holmes emergono dall’ultimo film che lo riguarda, Sherlock Holmes di Guy Ritchie. Prendendo come termini i primi modelli – Basil Rathbone e Nigel Bruce – e gli ultimi – Robert Downey Jr. e Jude Law – si rileva che non esistono caratteri più diversi (e lo si vedrà anche nelle successive versioni di Benedict Cumberbatch, nella serie Sherlock, e Henry Cavill, nei due film di Enola Holmes). E non basta dire “naturale evoluzione”. Sarebbero molti gli attori contemporanei che indossano le caratteristiche dei due personaggi inventati da Conan Doyle. Parlo di flemma, di “inglesità”, parlo anche di maniera e di grottesco soprattutto riferito a Watson. È lo stesso processo che, nei decenni, ha riguardato James Bond, partito de Connery, perfetto, e passato attraverso caratteri che di volta in volta ne modificavano la personalità fino a stravolgerla. Daniel Craig non solo è diverso dal primo modello, ma è esattamente l’opposto, per aspetto, per stile, per tutto. Da quasi un secolo Holmes occupa la letteratura e il cinema. È un personaggio, un amico di famiglia, un deterrente a tutto ciò che non ha qualità. Certo, il detective è anche “giallo”.
Conan Doyle-Holmes, Chandler-Marlowe, Christie-Poirot: sono i nomi eroici del giallo. I legislatori. Lo dico con una certa enfasi, ma il concetto è legittimo: stanno ai codici del genere come il diritto romano sta alla giurisprudenza. Impossibile prescinderne.