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‘Sull’isola di Bergman’, scene da un altro matrimonio (e da un cinema che resiste)

Mia Hansen-Løve dirige (a Fårö) Vicky Krieps, Tim Roth e Mia Wasikowska in un film che mischia autobiografia e cinefilia. Ma che vuole dialogare con il mondo di oggi

Foto: Teodora Film

Mettiamola così: tra cinquant’anni nessuno andrà a vedere la casa di Scene da un matrimonio versione Jessica Chastain e Oscar Isaac, e non perché – si vede negli incipit di ogni episodio della serie – è ricostruita in un teatro di posa. Non ci andrà perché Bergman non c’è e non c’entra più, punto.

Vanno invece a Fårö, rifugio di vita e cinema bergmaniano, e dormono in una delle stanze in cui è stato girato il capolavoro originale Vicky Krieps e Tim Roth in Sull’isola di Bergman di Mia Hansen-Løve, prima a Cannes e poi a Torino e ora nelle sale, film che ha fatto il giro dei festival perché festivaliero lo è fino al midollo. E che però cerca di dialogare col pubblico (il poco rimasto per questo cinema) attorno alla questione: che cosa rimane, appunto, di quel cinema che era al contempo alto e popolare, di quel processo di creazione e anche di vita, sempre tutto insieme, psicanalicamente e tossicamente intrecciato, e però bellissimo.

Certo, questo è cinema (ormai) per pochi per motivi che sono anche strettamente narrativi: Vicky/Chris e Tim/Anthony sono due registi e sceneggiatori, la prima ancora in cerca d’identità, il secondo celebrato nei cineclub. Dietro, pare, c’è la storia vera tra la regista e l’illustre collega Olivier Assayas, che l’ha scoperta come attrice (recuperate su MUBI il magnifico Fin août, début septembre) e da cui poi si è smarcata (anche) per diventare autrice in proprio.

Ed è diventata un’autrice formidabile, i suoi film – l’esordio nel lungometraggio Tout est pardonné (sempre su MUBI), e poi Il padre dei miei figli, Un amore di gioventù, Eden, Le cose che verranno – confermano l’unicità di sguardo intellettuale e umano insieme, e anche il posizionamento nel cinema europeo che non somiglia a quello di nessun altro.

Sull’isola di Bergman è, per certi versi, il film-manifesto, il suo tornare alla matrice, il work in progress raccontato in tempo quasi reale del suo modo di scrivere e girare. In primo piano c’è, dicevamo, il viaggio svedese un po’ rosselliniano dei due artisti protagonisti, ma in scena c’è anche il processo di creazione di una sceneggiatura, con buona parte del tempo di visione dedicata a un film nel film su una donna (bravissima Mia Wasikowska) che arriva sulla stessa isola, e si perde, e si ritrova. È un soggetto che forse Vicky/Chris non girerà mai. Ed è anche il film che stiamo già vedendo.

Mia Wasikowska in ‘Sull’isola di Bergman’. Foto: Teodora Film

Sotto, dentro, attorno a tutto quello che scorre sullo schermo c’è il cinema di Ingmar Bergman. E c’è l’uomo Bergman, che si rintraccia nel personaggio di Roth, nei dialoghi che echeggiano senza pedanteria il dibattito in corso (si può separare l’uomo dall’artista?), e ovviamente nelle case (anche quelle che non ci sono più), nella luce diritta del Mar Baltico, nella scelta, ancora oggi, di un cinema (un modo di fare cinema) integralista ma che guarda alle storie di tutti, alle vite di tutti.

Ingmar era il sommo genio di Come in uno specchio e Fanny & Alexander (sul Settimo sigillo son d’accordo con Vicky/Chris: non è tra i miei favoriti) o il tipaccio burbero che al supermercato rispondeva male agli isolani? Tutti e due. Come i personaggi, reali o (re)inventati, di questo film. Come noi che questo cinema vogliamo continuare a vederlo, illudendoci che anche la vita si scriva, si faccia così.

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