Ogni supereroe ha la sua origin story. E lo stesso vale per la maggior parte dei supervillain. The Apprentice – Alle origini di Trump (nelle sale italiane con Bim Distribuzione dal 17 ottobre, ndt) porta gli spettatori nella New York del 1973, quando un trentaquattrenne residente nel Queens entra nel locale dell’Upper West Side noto come Le Club. Si era recato lì nel tentativo di fare colpo su una giovane donna. Se ne andò dopo aver incontrato un noto avvocato nonché intrallazzatissimo membro dell’élite newyorkese che avrebbe finito per cambiare la sua vita. Si trattava del famoso Roy Cohn. L’aspirante avvocato di periferia era invece Donald Trump.
Il regista Ali Abbasi sa di giocare con il fuoco ripercorrendo i primi anni dell’ex Presidente e attuale imputato al processo che lo riguarda, e concentrandosi sul modo in cui il giovane immobiliarista ha appreso le sue tecniche di inganno, trash-talking e ubiquità sui tabloid, in quanto uomo che padroneggiava queste cose fin dall’epoca di McCarthy. Ma il regista iraniano-danese raddoppia i dettagli su quanto l’allievo abbia assorbito le lezioni del suo maestro. Non si può accusare il film di esserci andato leggero. The Apprentice è un biopic che parte dal momento in cui Trump e Cohn si guardano negli occhi in una stanza affollata – l’inizio della maggior parte delle grandi storie d’amore – e si conclude con la morte di Cohn nel 1986 per complicazioni legate all’AIDS. Ma soprattutto è una sorta di remake di Frankenstein, in cui uno scienziato pazzo gioca a fare da Pigmalione e guarda la sua creatura trasformarsi in un mostro.
A questo punto della sua carriera, Trump – interpretato con uguale quantità di olio, aceto e veleno da Sebastian Stan, in una performance che non è tanto un’imitazione quanto un’accusa fatta di mille sfumature – si trova dalla parte sbagliata di un’equazione binaria. Le persone sono o assassini o perdenti, gli viene detto dal padre Fred (Martin Donovan). Donald è un perdente, costretto a bussare alle porte e a riscuotere gli assegni d’affitto dagli inquilini del padre. Quando incontra Cohn (Jeremy Strong), che tiene banco con un entourage di leccapiedi e gangster, l’azienda di famiglia dei Trump viene citata in giudizio per discriminazione abitativa. L’uomo che ancora si vanta di aver mandato Ethel Rosenberg sulla sedia elettrica si invaghisce di quel ragazzo biondo; sa che questo grande sognatore sta facendo il passo più lungo della gamba, ma pensa di poterlo plasmare a sua immagine. Accetta il caso ma non accetta l’assegno di Donald. La sua amicizia, dice l’avvocato, è l’unico pagamento. Anche perché i favori sono fiche da giocare a poker. Proprio come le registrazioni private che conserva su altri suoi clienti famosi e scandalosi durante le consultazioni con loro: Cohn ama avere una piccola assicurazione a margine, per ogni evenienza.
I dettagli della mentorship di Cohn sono ormai noti, in particolare il modo in cui ha insegnato a Trump le tre componenti chiave di quelle che sarebbero diventate le procedure operative standard del Presidente della reality Tv: attaccare sempre, negare sempre e trasformare ogni sconfitta in una vittoria. Vederle messe in atto in una storia che dà per scontata la conoscenza del finale da parte del pubblico, tuttavia, lascia comunque una sensazione di inquietudine e rabbia. Abbasi non è un regista sottile e il suo bisogno di provocare a volte mina i suoi punti di forza; il suo film precedente, il thriller su un serial killer iraniano intitolato Holy Spider (2022), era una riflessione sulla misoginia sociale che inavvertitamente flirtava proprio con ciò che cercava di criticare. In questo caso, la forza della contundenza gioca a favore del suo film. La quantità di cattivi comportamenti messa in scena qui, soprattutto quando Trump supera il suo tutore e diventa il vero pezzo grosso nell’immorale New York anni ’80, rende bene come le peggiori qualità del magnate siano cresciute sotto i riflettori dei media. Cohn gli ha insegnato tutto a dovere, e l’allievo non ha fatto altro che fargliela pagare. Si vede Trump fare il furbo, fare marcia indietro, fare il doppio gioco, mentire, imbrogliare, rubare. Lo si vede anche violentare la moglie.
Sì, il film si spinge persino lì. The Apprentice ha già scatenato molte polemiche per la sequenza in cui il futuro 45esimo Presidente degli Stati Uniti aggredisce sessualmente la moglie di allora, Ivana Trump. Interpretata dalla star di Borat 2 Maria Bakalova, Ivana è innamorata del riccone che la insegue senza sosta ed è abbastanza intelligente da rifiutare un accordo prematrimoniale che le imporrebbe di restituire qualsiasi “regalo” in caso di divorzio. La donna funge anche da contrappunto umano all’atteggiamento sempre più rozzo, volgare e assetato di potere di Trump e al suo isolamento dopo la morte del fratello “perdente” Freddy (Charlie Carrick).
Dopo che Ivana suggerisce di riaccendere la scintilla nel loro matrimonio attraverso un libro sul punto G, Donald le dice che non è più attratto da lei. E poi la stupra sul pavimento. L’episodio è stato descritto in dettaglio in una deposizione di Ivana e riportato nella biografia Lost Tycoon di Harry Hurt del 1993. In seguito la donna ha smentito l’affermazione, ma il film presenta inequivocabilmente il fatto come non consensuale, anzi violento e criminale. Trump ha promesso di fare causa per far rimuovere la sequenza. Durante la conferenza stampa del film a Cannes, Abbasi non ha parlato della scena in questione, ma ha detto che avrebbe sperato di portare il film nelle sale senza tagli prima delle elezioni, e così è stato.
Anche senza questo particolare, uno dei tanti disgustosi esempi dell’atteggiamento “posso fare tutto quello che voglio” di Trump mentre sale la scala della fama e della fortuna, The Apprentice resterebbe comunque il ritratto ferocissimo di una delle figure più divisive della Storia americana. Non giustifica nemmeno Cohn – anche se Strong fa qui uno dei migliori lavori della sua carriera – ma almeno l’avvocato non perde mai il suo senso di lealtà. Che invece è qualcosa che Trump getta via nel momento in cui non è più necessario o gli conviene, e anche se organizza una cena di compleanno per il suo amico morente, si vede poi il suo staff igienizzare i mobili non appena Cohn se ne va. The Apprentice è un film che vuole farvi capire come Trump sia diventato l’uomo che è oggi, e come un altro artefice della discesa agli inferi degli Stati Uniti abbia attivato qualcosa di profondo in questo ragazzo del Queens. Chiamatelo L’arte del patto con il diavolo, e andate a vederlo nel cinema più vicino a casa vostra dove viene proiettato.