C’è quella canzone di Calcutta (dico così, ma la conoscete tutti) che si chiama Giro con te e fa così: “Io volevo solo un giro con te prima dell’apocalisse / E che tutto finisse ben oltre il limite“. Aggiungici una giungla – metaforica, mica come nel Cuore di tenebra di Joseph Conrad – e hai The Beast, ultimo film di Bertrand Bonello. O meglio, la novella La bestia nella giungla di Henry James, scrittore vissuto a cavallo tra Otto e Novecento e papà di quelle storie che a volte ritornano come Giro di vite (adattato nella Bly Manor di Mike Flanagan per Netflix) e fratello di William James, “padre della psicologia americana”, che codificherà le nozioni su cui i modernisti degli anni Venti costruiranno il flusso di coscienza. Ok, genealogia spiegata.
Presentato alla Mostra di Venezia del 2023 e vincitore dell’Efebo d’oro all’Efebo d’oro Film Festival di Palermo, The Beast è una libera interpretazione di quanto venne messo su pagina da James nel 1903: la narrazione a trama zero (perché ben poco “succede”) di una storia d’amore mai pienamente realizzata. I protagonisti sono John Marcher e May Bertram, “quello che avviene” è tutto nel ricordo: di un incontro nell’Italia del Sud (e dove se no), di uno scambio di sguardi, della ritrosia di Marcher a legarsi sentimentalmente – e solidamente – per un vago presentimento legato all’incombere di una “bestia” nella giungla della sua anima, condanna che gli pesa sul collo. Gli succederà qualcosa, il fato non gli sarà favorevole. Allora un giro con Bertram prima dell’apocalisse, ma senza sbilanciarsi.
Bonello recupera la dinamica, ma cambia il punto di vista. La sua coppia è formata da Gabrielle Monnier (un’incantevole Léa Seydoux) e Louis Lewanski (George MacKay), ciò che succede è filtrato dal punto di vista di lei. Pianeta Terra, 2044: l’Intelligenza Artificiale è diventata pervasiva e ha un’applicazione principale, permettere agli esseri umani di sganciarsi dalle emozioni e vivere nell’atarassia. Ciò avviene attraverso una comoda procedura di “pulizia” della persona, al termine della quale le sarà possibile avanzare di grado nella società, in quanto non sentire è giudicato più nobile che patire e com-patire (il latino cum-pateo, sentire insieme). Di fatto, realizzare il sogno (o incubo) impossibile di essere una monade, chimera che nel Seicento faceva scrivere al poeta inglese John Donne che “nessun uomo è un’isola”.
«Oggi, quanto più siamo connessi, tanto più siamo distanti. Ho voluto usare il filtro dell’AI per raccontare questa dimensione, dove generiamo ansia attorno alla comunicazione. Temiamo la perdita, il dolore che potrebbe derivare dell’altro e allo stesso tempo l’abbandono, nonostante non abbiamo mai avuto tanti mezzi per essere insieme agli altri. Volevo rappresentare questa paura». Così Bonello, che raggiungiamo per due chiacchiere a Milano.
«È anche un’ansia storica e generazionale, non solo mediale. Oggi abbiamo temi onnipresenti quali la crisi climatica, le guerre, la politica, la minaccia nucleare, l’atmosfera che si respira in generale in tutto il mondo… Io sono cresciuto in un mondo in cui tutto sembrava possibile (il regista è classe ’68, nda), compreso un domani migliore. Oggi il futuro appare solo peggiore».
La procedura apre però in Gabrielle vari universi paralleli, o vite vissute in sequenza storica. Nel 1910 è un’elegante dama parigina a una festa aristocratica mentre un’inondazione incombe sulla città. Nel 2014 si trova a Los Angeles ed è un’aspirante modella e attrice che si trova invischiata in una rete di scam online (compresi video pop-up che ricordano Trash Humpers di Harmony Korine). L’unica costante è Louis, che non solo incontra ma ricerca: la prima volta per un affaire romantico all’insaputa del marito, la seconda come pericoloso incel che potrebbe commettere atti violenti contro di lei (o potrebbe farlo un terremoto sulla Faglia di Sant’Andrea). Ogni volta la comunicazione fallisce. Ogni volta incombe la catastrofe, bestia di cui non si conosce il nome ma che viene presentata con un sonoro urlo di Seydoux nella prima sequenza del film, ambientata sullo sfondo di un green screen.
Ritmo onirico e sospeso, in mezzo al flusso si staglia una frase: “Tutte le catastrofi sono nel passato”. Ma i protagonisti non se ne accorgono e, mentre si rincorrono senza mai toccarsi nel presente, sono imprigionati nell’ansia verso il futuro. È molto più del carpe diem oraziano, molto altro: la corazza che si costruiscono invece che scegliere di essere vulnerabili. Il contatto umano allora è ricercato nei luoghi in cui nessun incontro può avvenire: i club, dove la musica pompa alta e il movimento del corpo, dice Bonello, è pensato per far liberare le persone, così che non implodano.
The Beast è tanto ed elegante, e negli anni in cui la musica ci ha fatto capire per prima che, sì, via libera all’ibridazione dei generi e delle influenze, un perfetto esempio di come si potrebbe cercare di farlo rientrare nella categoria dello sci-fi, ma che sostanzialmente non ce ne sarebbe il senso. In primis perché non è un film sull’Intelligenza Artificiale o il multiverso, anche se ne presenta delle componenti. Come sottolinea Bonello: «Ho cominciato a scrivere il film molto tempo fa, vi avevo già previsto l’inserimento dell’AI. Poi certo, nel 2023 sono venuti fuori tutti i dossier su quanto potesse essere pericolosa se non usata correttamente. Ma a livello tecnologico la situazione è semplice, è le riflessione politica che non vi tiene dietro, ed è più complessa. Dobbiamo però ricordarci che l’Intelligenza Artificiale è uno strumento, e dunque la sua funzione e la sua “eticità” dipendono da come la si usa».
Ma allora questa bestia, questa apocalisse? «Di solito si intende l’apocalisse come fine del mondo, per me invece è la fine di un mondo, di quello che si conosce. In particolare, parlo del mondo che abbiamo conosciuto finora, in cui l’umanità ha ancora ragione d’esistere, presa nella sua natura intera, quindi con le sue qualità e i suoi difetti. Se, nel caso del film, vogliamo toglierci i difetti, quindi i sentimenti, allora si apre un mondo nuovo. Potrebbe essere perfetto, perché da rifare da capo. Ecco l’apocalisse».
Una sorta di Eternal Sunshine (of the Spotless Mind). Dove però a essere scaricata non è una persona, ma la capacità di relazionarsi agli altri (e dunque concedersi all’amore) con semplicità e senza sovrastrutture, schiacciati dall’ansia e dal fatalismo. Che non vuol dire senza impegno, fatica, o regole. Ma ubriachi della gioia dell’andare avanti insieme.
Alberto Rollo traduce così, per Il Saggiatore, le battute finali della Bestia nella giungla di James: “La verità, vivida e mostruosa, era che mentre lui era rimasto in attesa, era proprio l’attesa la parte che gli toccava”, riferendosi al suo protagonista maschile quando si accorge di aver perso per sempre la compagna. “La via di salvezza sarebbe stata amarla; allora, soltanto allora, avrebbe vissuto. Lei aveva vissuto – chi potrebbe dire adesso con che passione? – dal momento in cui l’aveva amato per quello che era; mentre al contrario lui non l’aveva mai pensata (ah ora era evidente!) se non attraverso il gelo del suo egoismo e in un’ottica utilitarista […] La Bestia aveva spiccato il suo balzo e lui non aveva capito […] Lui aveva giustificato la sua paura ed era andato incontro al compiersi del destino; aveva fallito, con millimetrica precisione, in tutto quello in cui poteva fallire”.
John e Gabrielle passano la vita ad attendere una bestia che era già nel loro passato, in ogni scelta; che era già dentro di loro. «E lei comprende infine che la sua paura, la paura di amare, ha dato forma a tutte le sue vite. Ma quando lo capisce è troppo tardi, ed ecco l’urlo verso la bestia. È il principio del melodramma».