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‘The Bikeriders’: all’inferno (su due ruote) coi “selvaggi” Tom Hardy e Austin Butler

Jeff Nichols riprende un reportage degli anni ’60 su una banda di motociclisti simil-Hell’s Angels e ne fa un canto nostalgico e insieme attuale sulla mascolinità. Grazie anche a Jodie Comer, la donna che che ci racconta questa storia di libertà e paura

Austin Butler e Tom Hardy in ‘The Bikeriders’ di Jeff Nichols. Foto: Focus Features

Erano loro l’1% originale. Non i più ricchi tra i ricchi, l’élite dell’élite, come s’intende l’1% oggi, ma “l’1% che non ci sta e non ci interessa… ci siamo fatti strada a pugni in un centinaio di risse, siamo rimasti vivi con i nostri stivali e i nostri pugni”. Questa citazione apre Hell’s Angels di Hunter S. Thompson, il resoconto definitivo della banda di motociclisti che è stata sia l’emblema della libertà pura e semplice del dopoguerra sia un incubo per la società “rispettabile”. Stanno arrivando nella vostra città, faranno festa, sono una banda americana di motociclisti unti, sporchi e bevitori di birra che se ne frega di tutto e tutti. Erano dei disadattati che avevano trovato la liberazione su due ruote e vivevano secondo i loro codici violenti e autogestiti. Il libro inizia con loro che riconoscono il Gonzo King come uno spirito affine. Finisce con loro che lo calpestano in massa.

Gli Angels non erano l’unico club di motociclisti negli Stati Uniti, ma solo il più noto; ce n’erano molti altri. Come, ad esempio, gli Outlaws, la cui sezione principale operava a Chicago e permetteva al fotografo Danny Lyons di intervistarli e fotografarli mentre uscivano, lavoravano sui loro chopper e facevano lunghe corse. Ha anche registrato delle interviste con alcuni dei membri, oltre che con alcune delle loro mogli e fidanzate. Il risultato finale, The Bikeriders (ora nelle sale), è un piccolo classico della foto-antropologia moderna, un documento della fine degli anni ’60 sia di una specifica sottocultura che di un momento in cui la nazione ha vomitato una versione alternativa del Sogno Americano fai-da-te. Non c’è da stupirsi che il regista Jeff Nichols ne abbia subìto l’incantesimo quando si è imbattuto nel libro nei suoi anni giovanili. È la testimonianza diretta di un Nirvana perduto.

L’aspetto intelligente del tentativo dello sceneggiatore e regista di trasformare The Bikeriders in un film sui motociclisti a tutti gli effetti è che è pienamente consapevole di stare adattando un libro di fotografie per il grande schermo. Lyons stesso è un personaggio di questa storia, interpretato dal Mike Faist di Challengers, in parte fotografo imparziale, in parte terapeuta armato di microfono e in parte storico trasandato. C’è una specie di triangolo amoroso tra Benny (Austin Butler), l’anima persa del gruppo, Kathy (Jodie Comer), la sua moglie sofferente e narratrice de facto, e il club stesso, ribattezzato Vandals e incarnato dal suo stoico fondatore, Johnny (Tom Hardy, al suo massimo livello di “tomhardytudine”). I conflitti tra i personaggi sono numerosi, ma non c’è una vera soluzione. E come tutti gli imperi, questa banda vivrà un’ascesa, un periodo di massimo splendore, il passaggio del Rubicone e la caduta.

Tuttavia, l’approccio di Nichols al materiale di partenza è quello di presentare le cose non tanto come una narrazione tradizionale quanto come una serie di vignette, tutte ridotte a immagini invecchiate ad arte e spolverate di sporcizia, e una sorta di visione esperienziale. Si tratta di un libro di immagini in movimento, che passa dai bar alle risse su piste fangose, fino alle case e ai ritrovi della classe operaia, con un occhio all’effetto cumulativo di tutto questo vintage in bella mostra. Ricordate quella vecchia storia che dice che una tavola calda rétro degli anni ’50 è un museo delle cere vivente? Questa è una galleria d’arte con un motore Harley Panhead, restaurato e personalizzato per ottenere il massimo del vroom nostalgico.

L’iconografia è sempre stata una parte fondamentale delle bande di motociclisti, della cultura motociclistica e dei film sui motociclisti: i segni spesso controversi (svastiche, croci di ferro), le insegne identificative, le giacche di pelle e i jeans con i reverse. Il tomo fotografico di Lyons descriveva l’uniforme che era stata più o meno codificata dal Selvaggio, il film del 1953 a cui si fa riferimento sia in senso letterale – la leggenda vuole che Johnny abbia avuto l’ispirazione per fondare i Vandals dopo aver visto il film in Tv – sia in senso metaforico, attraverso l’interpretazione di Hardy, estremamente simile a Marlon Brando. Il fotografo/autore ha anche permesso ai suoi lettori di dare uno sguardo all’interno di un mondo perlopiù bianco, perlopiù operaio, e sono proprio gli aspetti di classe e di emarginazione quelli su cui Nichols fa maggiore leva. Tornando all’età dell’oro dei film sui motociclisti, ovvero al 1967-69, per ogni Dennis Hopper pericolosamente scapestrato si trovano molti più hippy hollywoodiani in costume da Hell’s Angel. Fra questi bikerider, tocca a Butler il ruolo del belloccio. Tutti gli altri membri dei Vandals hanno l’aspetto di un operaio o di un vero e proprio fricchettone in preda a una sbronza. Si sente virtualmente l’odore del vino scadente e del grasso dell’asse della loro motocicletta.

Jodie Comer e Austin Butler in una scena del film. Foto: Focus Features

Il libro di Lyons utilizzava anche una lunga conversazione registrata con Kathy Bauer, la moglie di Benny nella vita reale, come dispaccio da questo mondo di unghie sporche. Gran parte di questo materiale viene riproposto quasi alla lettera attraverso la voce fuori campo di Jodie Comer, in quella che potrebbe essere la più impressionante impresa di mimetismo regionale degli ultimi anni. La star di Killing Eve, originaria di Liverpool, ha già regalato al mondo una serie di impressionanti acrobazie con gli accenti più diversi; la sua interpretazione sopra le righe dell’accento del Midwest di Kathy è così convincente perché è autenticamente caricaturale, e setta il tono di tutta la sua camaleontica performance. Tuttavia, questo risultato impallidisce di fronte a ciò che fa in termini emotivi. La sua pazienza, la sua determinazione e la sua perseveranza sono incarnate in modo straordinario. Quando un incontro particolarmente pericoloso la ferisce profondamente, Comer lascia intravedere ogni crepa e ferita di quella donna. È lei il cuore del film.

Per quanto riguarda Butler e Hardy, il primo è la bellezza – quando la star Elvis imita il modo di James Dean di muovere la testa, aspettare un attimo e poi lasciare che i tuoi occhi lo seguano, è come guardare la vecchia scuola del divismo cinematografico in hyperdrive – e il secondo è il cervello e la forza. Entrambi gli attori venerano chiaramente il Metodo del XX secolo, che si sposa bene con l’aspetto da film d’epoca di questa riflessione sulla rabbia maschile; la doppietta di forza e sensibilità che ha permesso a Brando e altri di ridefinire la mascolinità americana per le successive generazioni di colleghi fa parte della loro uniforme tanto quanto la pelle e il denim. Hardy, in particolare, sfrutta al meglio il suo archetipo forte e silenzioso, aggiungendo non solo una sorta di dolce minaccia, ma anche correnti subliminali di disperazione esistenziale e di stanchezza da chi non trova più una via d’uscita. È un potente mix di freddezza glaciale e calore estremo, quello che porta in questo film. Sfidando la sua leadership, chiede con disinvoltura se il suo avversario preferisce i pugni o i coltelli. Implorando il Benny di Butler di prendere il comando della banda durante un falò notturno, il Johnny di Hardy si avvicina così tanto alla sfera più intima del suo protetto che ci si chiede se qualcuno abbia infilato una bobina di Scorpio Rising nella cabina di proiezione.

The Bikeriders non vuole necessariamente elogiare questi guerrieri della strada, né vuole seppellirne completamente la memoria. Nichols ha dichiarato di aver cercato di catturare il senso di ribellione e di rottura radicale che queste bande rappresentavano, così come l’atmosfera vintage-hip che ha sentito sfogliando il libro di Lyons. Grazie alla sua santa trinità di protagonisti – per non parlare di un’agguerrita galleria di canaglie che comprende la brutale mina vagante di Michael Shannon, il braccio destro interpretato da Damon Herriman e la coppia Mutt & Jeff cui dà volto e corpo il duo Beau Knapp-Karl Glusman – si ha la sensazione che abbia davvero fatto centro. Il regista sa anche che, per citare un saggio, per vivere al di fuori della legge bisogna essere onesti, e una volta che una generazione più giovane inizia a farsi strada tra i Vandals, vediamo quella precedente camminare lentamente, e con onore, verso il tramonto. Quelle foto originali hanno catturato un mondo che è durato un soffio. Il film sa che quel gesto nichilista può sembrare un po’ stonato ora, ma vuole comunque rendere omaggio alla memoria di questi selvaggi di un tempo.

Da Rolling Stone US

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