‘The Brutalist’ è già il miglior film dell’anno | Rolling Stone Italia
Land of Hope and Dreams?

‘The Brutalist’ è già il miglior film dell’anno

Il terzo lungometraggio di Brady Corbet, starring Adrien Brody nei panni di un architetto sopravvissuto all'Olocausto e arrivato negli States, è Cinema grandissimo nella durata, nell'ambizione, nell'anticonformismo. Come non se ne vedeva più da tanto, troppo tempo

‘The Brutalist’ è già il miglior film dell’anno

Adrien Brody è László Toth in 'The Brutalist'

Foto: A24

Spiace dover contraddire Tarantino, ma sorry Quentin, il cinema non è morto, almeno finché esisteranno film come The Brutalist, la testimonianza – clamorosa – che il Cinema è vivo e lotta con noi (e per noi). Nella chiacchierata Directors on Directors by Variety con Brady Corbet, il regista di Anora Sean Baker lo definisce “overwhelming”, travolgente, sconvolgente, perché è Cinema a cui non siamo più abituati: 215 minuti di durata-monstre (e non sentirli, MAI), girato in VistaVision (un vecchio formato panoramico anni ’50, impressionante nella definizione dei dettagli: la texture dei divani di pelle!), visivamente e tecnicamente eccezionale, con ouverture e intervallo (delizioso) come i filmoni epici degli anni ’70, quelli di Francis Ford Coppola, Michael Cimino e Bernardo Bertolucci ma soprattutto, la portata, l’eccesso e l’ambizione dei progetti degli anticonformisti della New Hollywood (eppure un budget minimo, circa 8 milioni di dollari). Sì, pare incredibile che un film come The Brutalist (Leone d’argento per la regia a Venezia 81 e nominato a 10 Oscar) esista oggi, è come fosse fuori dal tempo e insieme più che mai dentro al tempo.

The Brutalist | Official Trailer HD | A24

A partire dal titolo, che è meravigliosamente retrò, intellò e tutti gli aggettivi del caso che vi vengono in mente. The Brutalist è il protagonista László Tóth (Adrien Brody, sul nome ci torniamo), un affermato architetto ebreo ungherese cresciuto alla scuola del Bauhaus, sopravvissuto al campo di concentramento di Buchewald e arrivato negli States negli anni ’50 per costruirsi una nuova vita. Ma brutalissimo è anche quello che trova al suo arrivo nella Land of Hope and Dreams (cit. Springsteen), e cioè il capitalismo che vuole sfruttare, manipolare, dominare la sua creatività: “Per alcune persone non è sufficiente possedere l’arte. Vogliono possedere anche l’artista”, riassume – pure un po’ autobiograficamente – Corbet stesso. Non è un caso che, scelta audace, il regista decida di presentare László con un primo piano stretto mentre cammina per i corridoi umidi della nave e poi esce sul ponte a Ellis Island per vedere la Statua della Libertà, filmata significativamente a testa in giù. The Brutalist racconta come il sogno di un immigrato possa trasformarsi in un incubo, di più: racconta come l’American Dream ti possa fottere, letteralmente. E qui mi fermo.

Accolto da un cugino che ha un negozio di mobili e dalla moglie, Tóth viene incaricato dal primogenito (Joe Alwyn) dell’industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) di ristrutturare la biblioteca del padre e trasforma uno spazio semplice in qualcosa di trascendentale. Van Buren non apprezza la sorpresa e László finisce per strada a spalare carbone. Presto però il magnate ne scopre il passato, ne comprende il talento, torna sui suoi passi e lo cerca per proporgli di costruire un grande edificio per la comunità nella cittadina di Doylestown, contea di Bucks, Pennsylvania. È il progetto della vita per László, che riesce anche a portare in America dall’Ungheria anche la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy). Tra lui e il suo mecenate però si stabilirà un rapporto tossico, quasi di schiavismo, sia finanziario che psicologico, sino alla famigerata, magnifica e (alla fine) terrificante sequenza girata nella cava di marmo a Carrara, là dove Michelangelo ha scolpito la Pietà: “Qui ho capito che il marmo è un materiale che non dovrebbe essere posseduto, eppure lo usiamo per i nostri bagni e le nostre cucine”, ancora Corbet. E sì, László Tóth è il nome del geologo australiano di origine ungherese che nel 1972 prese a martellate proprio la Pietà. La creazione che va di pari passo con la distruzione, anche di se stesso.

E Brody è monumentale (pardon) nella gravitas con cui restituisce la passione e il dolore di László, quel suo vivere contemporaneamente nel passato e nel presente, costantemente lacerato tra aspirazione e realtà, dipendente dalle sostanze e da un’ambizione che lo eleva e lo distrugge, sembra quasi che la sua interpretazione nel Pianista (per cui è stato il più giovane attore protagonista di sempre a vincere l’Oscar) fosse soltanto una tappa per arrivare qui. E, chissà, magari adesso raddoppiare. Le polemiche sull’uso dell’AI per migliorare il suo ungherese? Irrilevanti, perché la sua performance è tutta su quella faccia pazzesca, che non l’ha mai fatto sembrare un prim’attore agli occhi dei direttori di casting, come ha raccontato lui stesso nell’ultima cover story di Variety. Vabbè. Il suo contraltare è un Guy Pierce supporting sensazionale, mai così arrogante e insieme incomprensibilmente irresistibile, mai così profondamente distruttivo: quando il suo Van Buren dice a Tóth, come fosse il suo giocattolino, ”Ti trovo intellettualmente stimolante” non potrebbe essere più inquietante.

Adrien Brody (Lázsló Toth) e Guy Pearc) (Harrison Lee Van Buren). Foto: A24

Ci sono aspetti della vita e della carriera di Louis Kahn e Marcel Breur, Paul Rudolph e Le Corbusier e di tanti altri artisti immigrati, e la sceneggiatura (del regista stesso e della moglie Mona Fastwold) è ricchissima di storia sociale e architettonica (per capirci, a confronto Megalopolis di Coppola è come ballare d’architettura, pardon ancora), ma The Brutalist non è un biopic. Per dichiarazione stessa di Corbet (che ovviamente ha visto La fonte meravigliosa, Il conformista, Il padrino) è una “virtual history”, così come lo erano i suoi due film precedenti: The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo (2015), romanzo di formazione del figlio di un diplomatico turned una sorta di Mussolini, e Vox Lux (2018), coming of age di una ragazzina sopravvissuta a una sparatoria a scuola e poi diventata popstar. Storie di persone extra-ordinarie tutte in qualche modo definite da un destino cupo, che cercano di combattere senza però riuscirci mai davvero.

E se le prime due opere avevano già trasformato Corbet in favourite della critica festivaliera, ora The Brutalist lo piazza unapologetically tra i più importanti Autori contemporanei e non solo. Perché ha realizzato un film senza compromessi su un artista senza compromessi (peccato solo per quel finale, e intendo proprio soltanto gli ultimi sei-sette minuti). Come i progetti di László, The Brutalist è destinato a resistere alla prova del tempo, a diventare un monumento creativo, un vero e proprio classico.