‘The Electric State’ è quello che ottieni quando trasformi i film in “contenuti” | Rolling Stone Italia
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‘The Electric State’ è quello che ottieni quando trasformi i film in “contenuti”

La graphic novel di Simon Stålenhag diventa il solito finto blockbuster di Netflix. L'unica cosa positiva? Ve ne dimenticherete immediatamente, a parte il fatto che quelle due ore della vostra vita ormai sono andate perse. Per sempre

‘The Electric State’ è quello che ottieni quando trasformi i film in “contenuti”

Millie Bobby Brown in ‘The Electric State’

Foto: Netflix

C’è l’arte, c’è l’intrattenimento, e poi c’è il “contenuto”, il termine generico che si riferisce all’infinita scorta di cose che vengono buttate fuori in nome di numeri e inventario. L’arte illumina. L’intrattenimento offre evasione. Il contenuto è semplicemente lì che intasa le arterie dei servizi di streaming e dei siti clickbait, offrendo buffet di calorie vuote e amnesia quasi istantanea. Non è interessato a esplorare l’esperienza umana, a trasmettere informazioni di pubblica utilità, a deliziare, distrarre, farti ridere, piangere o alzare il pugno al cielo. Esiste solo per essere consumato, dimenticato, e dare a un algoritmo un altro nano-bocconcino di dati per servirti la stessa cosa ancora. E ancora.

The Electric State è esattamente quello che ottieni quando trasformi i film in contenuti e, anche se la montagna di spazzatura fantascientifica distopica di Anthony e Joe Russo non dovrebbe essere costretta a soffrire per tutti i peccati di un’industria in crisi, esemplifica quello che è ormai diventato un deplorevole sottogenere: il finto blockbuster di Netflix. Anche altri streamer non li disdegnano di certo (sì, parliamo di voi, Amazon e Apple), ma il pioniere ha colonizzato questo spazio per primo e ha stabilito il modello. L’idea è di ingaggiare star del cinema, finanziare con palate di soldi, buttare dentro i soliti ingredienti generici (esplosioni, battute e location glamour in giro per il mondo o ambienti digitali stilizzati) e non lasciare alcuna impronta culturale. (Ricordate Red Notice, The Gray Man e The Adam Project? Nemmeno noi, e siamo andati su IMDb per ricordare ogni titolo.) Visto che questi grandi progetti raramente hanno un’uscita cinematografica degna di nota, gli spettatori vengono anche privati ​​di uno dei piaceri principali di questo tipo di film, ovvero godersi un’esperienza larger-than-life, il brivido del grande schermo insieme al resto del pubblico.

The Electric State | Final Trailer | Netflix

A essere onesti, però, The Electric State sarebbe una prova di resistenza indipendentemente dalle dimensioni dello schermo, dal numero di altri membri del pubblico presenti o da quanti popcorn avevi a portata di mano. È un brutto film, punto e basta. Il che è un peccato, perché sulla carta sembrava fantastico. Dite quello che volete sui fratelli Russo e sul Marvel Entertainment Industrial Complex, ma i signori hanno capito il compito dell’MCU; non dev’essere stato facile tenere tutte quelle storyline in movimento e legare tutti i fili della trama in Avengers: Endgame (2019), eppure sono riusciti a portare a termine il lavoro con onore. A bordo ci sono anche gli sceneggiatori di quel film, Christopher Markus e Stephen McFeely. La protagonista, Millie Bobby Brown, è stata la cosa migliore sia del franchise di Enola Holmes che del film di draghi Damsel (2024). E il materiale di partenza è una graphic novel dell’artista svedese Simon Stålenhag, in cui le conseguenze di una guerra tra macchine senzienti e uomini sono rese attraverso inquietanti e sorprendenti vignette a tutta pagina.

Nessuno si aspettava che i fratelli Russo facessero una traduzione fedele del libro di Stålenhag, il che avrebbe prodotto una madeleine d’autore costata miliardi di dollari. Ma non pensiamo che nessuno stesse chiedendo qualcosa di così goffo o scontato. Ambientato in un 1990 alternativo in cui i robot – inventati da Walt Disney negli anni ’30 e rapidamente adottati come mascotte aziendali – si ribellano ai loro signori in carne e ossa, la storia ci catapulta in un mondo in cui l’Homo sapiens regna ancora una volta sovrano. Nonostante abbiano l’automa Mr. Peanut (doppiato da Woody Harrelson) come loro Martin Luther King, i “bot” dall’aspetto rétro sono stati sconfitti, per gentile concessione di qualcosa chiamato “neurocaster“, ovvero una sorta di drone telecomandato inventato da un miliardario della tecnologia (Stanley Tucci). Le macchine sono state ora esiliate in un luogo chiamato “zona di esclusione”, che assomiglia a una discarica di Palm Springs. Gli umani si accontentano di vivere infinite realtà virtuali, impegnandosi raramente nel mondo esterno. E tutto questo è presentato come una vittoria ironica e amara. Non restate seduti davanti agli schermi ad abbuffarvi di contenuti digitali infiniti! Questo contenuto vi è stato offerto da Netflix.

La nostra guida turistica in questa landa desolata quasi apocalittica è Michelle (Brown), una giovane donna che ha perso i genitori e il geniale fratello minore, Christopher (Woody Norman), in un incidente d’auto anni fa. All’improvviso, riceve la visita di un robot, che le dice che il fratello in realtà è vivo. Deve però andare nella zona di esclusione off-limits per trovarlo. Michelle e il suo nuovo amico si nascondono nel retro di un semi-camion di proprietà di un contrabbandiere di nome Keats (Chris Pratt, in modalità pilota automatico). Era un ex soldato che ha combattuto nelle guerre dei robot ed è rimasto deluso da quello che ha visto. Ora Keats vende beni al mercato nero con il suo aiutante meccanico Herman (doppiato da Anthony Mackie), che soffre della sindrome della spalla comica insopportabilmente spiritosa. Ha pietà di Michelle, e il quartetto riesce a intrufolarsi nella terra di nessuno a sud del confine, alla ricerca di uno scienziato (Ke Huy Quan) che conosce l’esatta posizione di Christopher. Nel frattempo, uno zelante cacciatore di robot (Giancarlo Esposito) è sulle loro tracce.

Da qui, The Electric State si attiene alla stessa prevedibile sceneggiatura di un milione di altri film simili. Boom, bang, pow. Gli spunti musicali vintage sono progettati per evocare nostalgia, meta-commento o una combinazione insipida di entrambi. (“Non voglio morire per Marky Mark and the Funky Bunch!”, si lamenta Keats mentre si sente Good Vibrations senza un vero motivo se non quello di creare una battuta su Marky Mark and the Funky Bunch.) Le sequenze d’azione sono l’equivalente pixelato del parlare a voce alta e non dire niente. Volti e voci famosi (Holly Hunter, Brian Cox, Jenny Slate, Colman Domingo, Jason Alexander, Alan Tudyk, Hank Azaria, Patti Harrison) vanno e vengono. Anche il divertimento di vedere scatenarsi giganteschi robot d’altri tempi, che sembrano essere stati progettati da un operaio metalmeccanico di Portland con i baffi arricciati, svanisce in fretta.

I film sono nati come una novità usa e getta, destinati al pubblico poco esigente dei nickelodeon, più preso dalla magia tecnica di far muovere le immagini che da ciò che accadeva in quelle immagini. The Electric State sembra fatto per quel tipo di spettatori. È solo che è arrivato 115 anni in ritardo. Nel migliore dei casi, questo tentativo di trasformare una graphic novel stimolante e acclamata dalla critica in quella che oggigiorno passa per una stravaganza cinematografica estiva è semplicemente materiale per un elenco di visioni consigliate generato da un algoritmo “Perché hai guardato Io, robot…“. Nel peggiore dei casi, sembra che ti vengano applicati 10mila volt di elettricità direttamente all’inguine. L’unica cosa positiva del contenuto? Ve ne dimenticherete immediatamente, a parte il fatto che quelle due ore della vostra vita ormai sono andate perse. Per sempre.

Da Rolling Stone US