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‘The Fabelmans’, c’erano una volta Spielberg e il cinema

Tra family drama e divertito coming of age, il regista mette in scena la sua infanzia e adolescenza, celebrando con tenerezza e verità più la nascita di uno sguardo che quella di un uomo. E puntando dritto all'Oscar race

Paul Dano, Mateo Zoryan Francis-DeFord e Michelle Williams. Foto: Universal Pictures


C’era una volta un bimbo che giocava con i trenini. Ma che più che a guardarli correre sulle rotaie si divertiva a farli deragliare: proprio come aveva visto in un film, la prima volta che, vincendo di malavoglia la paura del buio, era entrato in un cinema. Uno scontro, due, tre: un giocattolo che appena aggiustato finiva per rompere nuovamente. Di continuo. Tanto che a sua madre venne un’idea, di quelle che ti cambiano la vita: anche la nostra. «Filma l’incidente con la cinepresa di papà: così potrai riguardarlo quante volte vorrai». Il trenino che corre impazzito, investe un’auto, finisce contro un altro convoglio. Non ci crederete, ma anche i geni hanno cominciato da piccoli. Perché sì, Steven Spielberg è già tutto lì. in quello schianto c’è la pinna dello squalo, la bambina col cappotto rosso. E pure il volo su quelle biciclette da cui, una volta saliti, non siamo più scesi.

C’è una passione, un affetto – anzi, un vero amore – per il cinema che non ha uguali, né termini di paragone, in The Fabelmans, la “mano di Dio” (o dell’Io?) del regista di E.T. – L’extraterrestre e Schindler’s List che – come Sorrentino, Branagh, Gray, Crialese… (una circostanza che meriterebbe una riflessione a parte: forse la necessità post pandemica di molti autori di azzerare il presente per cercarsi e ritrovarsi nel passato) – mette in scena la sua infanzia e adolescenza, celebrando, con tenerezza e verità, più la nascita di uno sguardo che quella di un uomo.

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La persistenza della visione – il cervello che trattiene l’immagine che scappa nella luce –, la ripetizione ostinata dell’incanto, il potere evocativo di “a kind of magic” che non è mai stato hobby ma vocazione, sacerdozio, senso del tutto: presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma – davanti a una sala eccitata e piena di giovani che del regista 75enne condividono la fede, l’utopia, la medesima, estrema, convinzione nello stupore –, The Fabelmans è l’autoritratto della magnifica ossessione di un ragazzo che decise di seguire quello che il cuore gli diceva di fare e alle sorelle più piccole ordinava, mentre girava film con i boy-scout, di non guardare in macchina: un riconoscente, viscerale, film sul cinema (su quello che il cinema può fare, sulle ferite a cui si espone ma anche sulla sua capacità salvifica e taumaturgica) in cui Spielberg, tra family drama e divertito coming of age, si mette in gioco rievocando il se stesso sognatore bullizzato al liceo perché ebreo, nella scoperta dolorosa di ciò che l’occhio non vede, quel fotogramma di verità che nemmeno sapevi di avere ripreso, là dove, nella vita vera, non puoi mentire alla cinepresa.

Una summa, davvero, ma che l’autore dei Predatori dell’arca perduta racconta senza perdere l’umiltà e l’ironia, riguardando con sofferta partecipazione al divorzio dei genitori (interpretati da una bravissima Michelle Williams, con camera con vista sulla nomination, e da Paul Dano), personaggi centrali e chiave della sua vita così come del film, rivestendo l’immagine di quel mood color nostalgia (figlio dell’immaginario collettivo: splendido il lavoro del direttore della fotografia Janusz Kaminski) che appartiene più al cinema anni ’50 e ’60 che alla realtà.

Protagonista scontato dell’Oscar race, pieno di idee (David Lynch nei panni di John Ford vale da solo il prezzo del biglietto), The Fabelmans va oltre il confronto tra arte e famiglia («Amiamo la famiglia, ma l’arte è la nostra droga, ti strapperà il cuore»), andando alle radici dell’ispirazione di un autore in grado negli anni seguenti di rivoluzionare il cinema. Nessuno ha ucciso al posto di Spielberg Liberty Valance, lo ha fatto da solo: perché se mettere la testa dentro le fauci del leone è un’idiozia, per uscirne vivi – e farne spettacolo – ci vuole talento.

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