Una torta alla panna. Con le meringhe. E le ciliegie candite. Non so per voi, ma per me il cinema di Wes Anderson è quella roba lì. Delizioso, irresistibile, morbido: una meravigliosa festa di compleanno, la gioia che rinfresca e porta sollievo ai nostri sguardi affaticati.
Non fa eccezione nemmeno The French Dispatch, un film che si sfoglia come una rivista, dove l’autore texano può scatenare la sua immaginazione fertilissima da raffinato illustratore, strappandoci più di un sorriso con i suoi elaboratissimi, spesso geniali, quadri vivant. Certo, siamo nell’ottica del divertissement, per lo più fine a se stesso: ma non si può negare che l’ultimo film dell’autore di Moonrise Kingdom sia una vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d’epoca e il gusto ingegnoso per l’inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, un omaggio affettuoso che trasuda di nostalgia per qualcosa che non è mai esistito.
Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico, The French Dipatch è la lettera d’amore color pastello (ma di quel giallo senape ne vogliamo parlare?) che Anderson spedisce al giornalismo d’antan, pensando in particolare al leggendario – e a lui molto caro – New Yorker. E allora eccola la redazione, nel cuore della Francia, di questo giornale del Kansas, dove il caporedattore Bill Murray guida la sua truppa forte di un imperativo scritto sul muro a cui non possiamo non ubbidire: “No crying”.
Diviso in capitoli che seguono le sezioni del giornale (fino ai necrologi…), il film, che avrebbe dovuto trionfalmente aprire il Festival di Cannes mai andato in scena del 2020, porta, un anno dopo, una sana ventata di leggerezza sulla Croisette, dove la classe purissima del regista americano che l’Academy ha candidato 7 volte all’Oscar (senza mai darglielo: ma siete pazzi?) non passa di certo inosservata.
Arte moderna, il Maggio francese, la venerazione per gli chef: con l’anticonformismo che gli appartiene, Anderson si fa gioco degli stereotipi, crea personaggi fantastici, non disdegnando nemmeno l’utilizzo del fumetto.
Molte cose belle: ad esempio, senza spoilerare troppo (il film da noi esce l’11 novembre), Benicio del Toro, detenuto con la passione per l’arte, che ritrae nuda la guardia carceraria Léa Seydoux, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo, un cuoco di nome Nescaffier… Insomma, ci si diverte: e non poco.
D’altra parte la fantasia e il piacere del racconto, così come la cura del particolare, rendono da subito attraente un film che è un red carpet vivente di star: da Frances McDormand a Owen Wilson, da Timothée Chalamet (ieri sera in passerella con un abito argentato che luccicava fino ad Antibes) ad Adrien Brody, da Tilda Swinton a Christoph Waltz, tutti gli amici della banda di Wes hanno voluto essere della partita. Difficile dargli torto. D’altronde il cinema di Anderson è come lo zucchero a velo: se c’è, è meglio.