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‘The Holdovers – Lezioni di vita’: che Dio benedica Paul Giamatti

Dopo ‘Sideways’, l’attore ritrova il regista Alexander Payne per un’altra dramedy che mette al centro un uomo cinico e perdente. E punta dritto all’Oscar

Foto: Focus Features

Che Dio ti benedica, Paul Giamatti.

Ci sono attori che non temono di apparire stupidi o meschini nei loro ruoli, che si sforzano di risultare antipatici sullo schermo quando l’umore del personaggio (e la Awards Season) lo richiede, che fanno volentieri la figura dei barboni sfoggiando un taglio di capelli poco lusinghiero o – rabbrividiamo… – degli occhiali con lenti a fondo di bottiglia. E poi c’è il 55enne Giamatti, che sembra scivolare senza sforzo nella modalità “sfiga miserabile” in un batter d’occhi. È un artista in grado di creare una sinfonia patetica suonando 12 note diverse, e di far sembrare naturale ogni suite dissonante. È un artista che capisce che la comicità non è sempre gradevole, che il pathos non è gentile con chi lo riceve e che l’umanità è tutt’altro che perfetta. È in queste imperfezioni, infatti, che Giamatti di solito trova ciò che rende noi homo sapiens così condannati e così meritevoli di amore. Questi, ben inteso, sono tutti complimenti. Nessun altro avrebbe potuto ritrarre Harvey Pekar (il fumettista che ha interpretato nel biopic American Splendor, ndt) in modo così perfetto. O articolare precisamente la crisi esistenziale del furioso movimento intestinale di un adolescente.

The Holdovers – Lezioni di vita, nelle sale italiane dal 18 gennaio, riunisce Giamatti con il regista di Sideways – In viaggio con Jack Alexander Payne, e ci si chiede se parte della proposta dell’autore sia stata: “Ehi, ricordi quell’appassionato di vini solitario? Ti piacerebbe interpretare qualcuno di ancora più ostile e scorbutico?”. Eccoli dunque di nuovo insieme in un nuovo dramma, non solo ambientato negli anni ’70, ma che riproduce lo stile cinematografico dell’epoca in modo fedelissimo e talvolta un po’ distraente (quanto ci sei mancato, schermo blu vintage della Motion Picture Association!). The Holdovers è un film pungente e agrodolce che mette insieme tre anime perdute, bloccate in un liceo privato del Nordest degli Stati Uniti durante le vacanze di Natale.

Tuttavia, un’anima è un po’ più irrimediabilmente persa delle altre, ed è il ruolo assegnato all’attore candidato all’Oscar. La prima volta che vediamo Paul Hunham è ingobbito sulla scrivania del suo ufficio, intento a correggere dei compiti; la prima parola che sentiamo uscire dalla sua bocca è un “Filistei!” appena farfugliato. Il professore di civiltà antiche della fittizia Barton Academy è scapolo, ha un cattivo odore dovuto a una malattia ed è antipatico sia ai membri della facoltà che agli studenti. Passa le serate attaccato alla bottiglia di whisky e le giornate a cercare di penetrare nella testa dei giovani ricchi e altolocati che frequentano questa prestigiosa scuola maschile. Non che quei cretini apprezzino le intuizioni geniali che ha da offrire, o che si preoccupino di decifrare i libri di testo. “Non posso essere bocciato in questo corso!”, si lamenta un alunno dopo aver ricevuto l’insufficienza in un test. “Oh, non si sminuisca, signor Kountze”, risponde Hunham, “credo che lei possa farlo certamente”.

È perché l’anti-Mr. Chips (dal protagonista del film Addio, Mr. Chips! del 1939, ndt) ritiene che queste giovani menti abbiano uno standard così elevato che il professore viene ora punito. Hunham ha bocciato il ricco e stupido moccioso sbagliato, quindi si ritrova a fare da babysitter ai “rimanenti”. Ovvero quei ragazzi che non torneranno a casa per le vacanze, e che sono costretti a restare nel campus. Il leader di questi orfani accademici è Angus Tully (l’esordiente Dominic Sessa), uno degli studenti più intelligenti della classe di Hunham. Stava per andare a St. Kitts quando sua madre lo ha informato che invece sarebbe rimasto lì. Una volta terminata la scuola, Hunham, Tully, la cuoca dell’istituto Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph) e il resto degli studenti si preparano per un lungo inverno di prigionia.

Poi uno scherzo del destino lascia Tully da solo con i due adulti, e The Holdovers si trasforma essenzialmente in un film a tre, mentre la nostra empia trinità riempie a turno alcuni vuoti della storia. Ci sono i primi colpi di scena e le rese dei conti, e molte battute taglienti dispensate dai più giovani del cast, mentre il film vi inganna volutamente facendovi credere che si tratti di un nostalgico sguardo rivolto ai nostri pigri e svogliati giorni di scuola. I ragazzi saranno ragazzi (maliziosi, arrapati, venali, che mascherano accuratamente le loro vulnerabilità con la crudeltà, ma che si ammaccano più facilmente di un cesto di pesche troppo mature). Le figure teoricamente autoritarie saranno tiranni pomposi e meschini. Un personaggio nero gentile insegnerà ai personaggi bianchi molte, molte cose sul mondo. Si apriranno gli occhi su tante cose, eccetera eccetera.

Ma come nella maggior parte dei film di Payne, le aspettative vengono smentite, le chiacchiere diventano tutt’altro che dialoghi a buon mercato – anzi, diventano il valore principale del film – e l’attenzione si restringe ai legami piuttosto che alle differenze. Lavorando su una sceneggiatura di David Hemingson, veterano della televisione, il regista prende una manciata di dettagli che potrebbero sembrare secondari e poi lascia che siano questi elementi a dettare la direzione delle cose. Scopriamo che Hunham ha una lunga storia di umiliazioni sia all’interno che all’esterno di Barton, ma anche alcune qualità che saremmo quasi tentati di definire redentrici. Tully continua a parlare di Boston, che si trova a breve distanza dalla scuola, e sembra deciso a raggiungerla. All’inizio apprendiamo che il figlio di Mary era un ex studente della Barton che ha perso la vita in Vietnam; presto vediamo come questa perdita l’ha colpita e i segni che il dolore ha lasciato sulla sua pelle.

In altre parole, il film diventa un’ottima vetrina per i tre attori protagonista, cosa che è sempre stata uno dei punti di forza di Payne, un regista di interpreti old school. Anche se si ignora la meticolosa scenografia di Me Decade, non si può guardare The Holdovers senza pensare alla New Hollywood degli anni ’70, quando storie difficili di persone difficili passavano su tutti gli schermi americani. Ma è anche una madeleine pensata per farvi ricordare gli anni ’90, quando Payne iniziò a farsi un nome nel circuito indipendente e questi character studies potevano trovare un pubblico più ampio e ricettivo. Il tempo non ha cambiato il suo modo di fare cinema, in modi sempre soddisfacenti e, sì, a volte estremamente prevedibili: se avete immaginato che a un certo punto ci sarebbe stato un road trip, la vostra intuizione sarà sicuramente ripagata. Tuttavia, dopo la satira traballante di Downsizing del 2017, questo ritorno a un territorio più concreto dimostra che la sua particolare cifra di dramedy spigolosa, divertente e incrollabilmente umana è ancora presente. La sua voce ci è mancata.

Dominic Sessa e Da’Vine Joy Randolph in una scena del film. Foto: Focus Features

Ma torniamo agli attori, che fanno sentire quella voce come presenza vitale. Sessa è forse il più inesperto dei tre, ma ha un’affascinante ruvidità che si adatta bene al suo Angus, un ragazzo che ha imparato che la vita non ti offre tutto su un piatto d’argento, anche se sei abituato a mangiarci sopra. C’è qualcosa di irrisolto in questo giovane uomo, che questo attore esordiente coglie in un modo che sembra del tutto naturale. Siamo abituati a vedere Da’Vine Joy Randolph rubare la scena e salvare interi progetti – il suo ruolo nel reboot di Alta fedeltà la rende un national treasure fra gli attori non protagonisti di nuova generazione – ma qui è chiamata a fare un lavoro difficile su un personaggio che non è pienamente sviluppato come quelli dei suoi partner sullo schermo. E però riesce a dare un’anima a Mary, in modi che sono sia molto sottili (adoro il modo in cui passa il dito sulla toppa della giacca militare del figlio appesa nell’armadio) che sostanziali. Non si tratta solo degli sguardi annoiati quando i ragazzi della Barton fanno disinvoltamente commenti razzisti e classisti, o del modo in cui commisera dolcemente sé stessa e Hunham per il loro comune fardello: la ricreazione. È il modo in cui la Randolph offre scorci della vita interiore di questa donna andando quello che c’è scritto sul copione. Si ha la sensazione di aver visto solo la punta dell’iceberg di ciò quest’attrice che può fare.

Tuttavia, The Holdovers sa che il suo asso nella manica è Giamatti e la sua disponibilità a far sventolare la sua bandiera di perdente. Ci sono momenti in cui diversi trucchetti a cui Giamatti ci ha abituati – l’aumento del volume della voce da 0 a 11, la rabbia spessa incoerente, la doppie prese di posizione, la risatina velocissima condita da un certo senso di superiorità – sono messi a frutto in modo estremamente efficace. Anche quando si comincia a capire che l’eloquenza tagliente e l’atteggiamento saccente dell’insegnante nascondono una buona riserva di dolore, ci si ritrova ancora a pensare a quanto velocemente si cambierebbe posto se si fosse seduti accanto a quest’uomo su un treno. Ma si è costretti a riconoscere quanto la bontà di Hunham stia lottando contro la “comodità” di essere un misantropo. È un punto di forza per l’attore, a cui Payne sa come cucire addosso una storia su misura, e il film potrebbe non essere così profondo senza di lui. Se il bivio davanti a cui lasciamo al personaggio alla fine del film sia meritato o meno, è una questione che può variare a seconda dello spettatore. Quello che si può dire di questa storia di miracoli natalizi mancati è l’ammirazione per quello che Giamatti può fare con personaggi così imperfetti. E riconoscere quanto ci siamo arricchiti dopo aver avuto, grazie a lui e a Payne, uno sguardo così generoso su queste anime perdenti e perdute.

Da Rolling Stone US

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