Alla parete c’è appeso un Hopper. Una copia, ovviamente. È quello con la gente seduta al sole, sulle sdraio. Aspettano, forse. Sono veri, sono fantasmi. “All the living and the dead”. È il finale del racconto più famoso di Joyce, già meraviglioso film di John Huston. Nell’ultimo film di Pedro Almodóvar ci sono entrambi, il racconto e il film. Sono, quelle parole, la chiave per capire il dolor y gloria di queste due vite, di queste due donne: Tilda Swinton e Julianne Moore.
The Room Next Door, in concorso a Venezia 81 (sarà nelle sale a dicembre col titolo La stanza accanto), è un vitalissimo film sulla morte. Leggevo, e lo sentivo dire anche dopo la proiezione stampa al Lido, che è cupo, qualcuno diceva addirittura senile. A me pare tutto il contrario. Da qualche tempo, Almodóvar ha evidentemente avviato una riflessione – artistica e personale, si vedano i bellissimi dispacci dalla pandemia su El Diario – sulla fine. Sulle separazioni: dalle persone, dalla vita. Su quello che lasciamo indietro, e quello che forse non troviamo davanti. I corti The Human Voice (sempre a Venezia, sempre con Tilda Swinton) e Strange Way of Life. E Madres paralelas. E, prima di tutti, il citato, magnifico Dolor y gloria.
The Room Next Door è la prosecuzione obbligata, precisa, dolorosa e gloriosa su quella strada. È tratto da una storia non sua (il romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez). È il suo primo lungometraggio girato in inglese, dopo un progetto abortito con Cate Blanchett dall’opera di Lucia Berlin. È un film doloroso, sì, ma mai dolente.
Ingrid (Julianne Moore), scrittrice che non riesce a fare i conti con la sua e nostra mortalità, viene a sapere che Martha (Tilda Swinton), una vecchia amica che non vede più da anni, ha un grave cancro. Va a trovarla in ospedale. Nasce un nuovo patto, tra due donne che amiche erano rimaste pure a distanza, e che si ritrovano ancora più vicine nella maturità, e nelle scelte che essa comporta. Avrete letto in giro alcune parole chiave della trama: non le ripeterò qui.
Perché The Room Next Door non è un giallo, ma un po’ sì. È un noir verniciato di melodramma alla maniera anni ’40 che ad Almodóvar piace da sempre moltissimo. Qui anche di più, perché per la prima volta ha girato in America (ma gli interni sono ovviamente a Madrid), e sembra voler risagomare ancor più esattamente quel modo, quel mondo. C’è tanto cinema classico, da Buster Keaton a Lettera da una sconosciuta. Ci sono scale che portano a stanze segrete come in Vertigine di Preminger. Vestiti eleganti e lettere misteriose per davvero. Poliziotti impiccioni e travestimenti (letteralmente: e il finale volutamente kitsch ha spiazzato alcuni).
Ma, al cuore, questo film rimane un’indagine sulla fine, o su un nuovo inizio. Il centro di The Room Next Door resta l’amicizia tra due donne come raramente si è vista sullo schermo ultimamente. Non la sisterhood alla moda corrente: del resto, un paio di battute lasciano intendere che tante istanze di oggi, spesso solo di superficie, a Pedro non piacciono, o quantomeno non interessano; ma la relazione piena, rotonda, adulta fra due donne, e tutto quello che resta e che cambia.
Tilda Swinton e Julianne Moore sono due giganti (ma dai), soprattutto nel lasciarsi spazio a vicenda, nell’ascoltarsi, nel non divorarsi facendo a gara di gigionismi (entrambe sono, anzi, molto “tenute”). Non è, per intenderci, un “film di donne” nello stile dei melodrammi alla Eva contro Eva rieditati in chiave camp anche recente (da Diario di uno scandalo a May December i primi che mi vengono in mente).
E, nel suo umanesimo anche ambientalista, politico e morale, il dolorosissimo The Room Next Door riesce a restare un film pieno di luce. Quella di Hopper, e dei colori sempre accesi di Pedro, e della neve che, quando cade in questo film, è sempre rosa. E quello di una giacca gialla e di un rossetto rosso, per stendersi al sole ad aspettare.