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Tom Cruise, ‘Top Gun: Maverick’, e cosa vuol dire essere un classico

Il sequel del cult anni ’80, presentato fuori concorso a Cannes, è la sintesi perfetta di quello che è il cinema per il divo. Un gioco ‘adulto’ tra professionisti di Hollywood, fatto come una volta ma capace di aggiornarsi al presente. Ecco perché dobbiamo essergli grati

Foto: Patricia de Melo Moreira/AFP via Getty Images

Cosa si può definire classico, nel cinema blockbuster degli ultimi venti-trent’anni? Cosa può sopravvivere al tempo, entrare nel canone, diventare simbolo e sintesi? Non credo che i film Marvel, per dire i più famosi e fortunati delle ultime stagioni, avranno questo destino. Sono intrattenimento a volte notevolmente buono, più spesso ormai incartato su sé stesso, ma comunque non corrispondono al metro del cinema classicamente (appunto) inteso.

Ci sono, nella recente autobiografia di Gabriele Muccino (ormai cito solo quella), delle pagine favolose in cui è riportato un favoloso incontro con Tom Cruise. C’era ancora Katie Holmes, che allattava Suri (!), e c’era Tom che riceveva da vero anfitrione il suo ospite, gli dava lezioni di baseball, lo sequestrava per un giorno intero per studiarlo (Muccino veniva dal successo della Ricerca della felicità) e capire se poteva nascere una collaborazione. Era (è) il modo di fare cinema di Tom Cruise: un gioco, sì, ma soprattutto un’azienda fatta da e di grandi professionisti. È così che lo intende Tom, uomo che – scrive Muccino – è tra i pochi a conoscere il cinema per davvero, nell’ignorantissima industria americana.

La sintesi della parabola di Cruise la dà sempre Muccino: ci ha provato, col cinema dei Grandi Autori (Coppola, Scorsese, Stone, Kubrick); ci è andato vicino, a vincere l’Oscar (Nato il 4 luglio e Magnolia); ha capito, alla fine, che non era quello il territorio che gli spettava, nell’industria che l’ha sempre sottovalutato come attore serio; e che avrebbe dunque potuto costruire il suo mondo. Ovvero: un cinema grandissimo, popolare, blockbuster appunto, ma fatto, comunque, da grandi professionisti che potevano diventare, a loro modo, grandi autori.

Tom Cruise in ‘Top Gun: Maverick’. Foto: Paramount Pictures

Tom Cruise sa che Top Gun è uno dei titoli che hanno contribuito a edificare la sua stessa icona. Quella dell’eroe nato reaganiano che poi a quel mito voltò le spalle, ma senza mai politicizzarsi; del belloccio da cocktail che ha sempre voluto dimostrare di più, in tutti i sensi; dell’idolo delle folle poi quasi scomparso, per apparire solo attraverso i film, pochi, enormi. Sempre dalle pagine di Muccino, si capisce che, tra i potenti di Hollywood, Tom è il vero Citizen Kane. Il Citizen Cruise che, dal suo eremo scientologyco, ha edificato un pezzo di Hollywood fuori dal tempo e insieme dentro il suo tempo. In qualità di attore, produttore e, in fondo, anche regista della sua carriera, ma anche dell’industria tutta e della sua evoluzione.

Il punto di rottura è stato, probabilmente, il primo Mission: Impossible (1996). Un film che era insieme giocattolone per le masse e opera d’autore (Brian De Palma). E che di fatto ha inaugurato un genere: il cinema d’azione per adulti in cui Tom Cruise continuava sostanzialmente a fare sé stesso, secondo un canone (rieccolo) che ha portato fino all’ultimo, bellissimo Mission: Impossibile, ovvero il capitolo Fallout uscito quattro anni fa e diretto da Christopher McQuarrie, esempio perfetto di nome che una volta sarebbe stato relegato tra i mestieranti di Hollywood e che invece, grazie a Cruise, è diventato autore.

Lo stesso vale per Joseph Kosinski, che ha diretto Top Gun: Maverick (e prima, sempre con Cruise, Oblivion: Tom li cresce uno ad uno) su sceneggiatura, tra gli altri, di McQuarrie. Top Gun: Maverick, presentato fuori concorso a Cannes e nelle sale dal 25 maggio, era, sulla carta, un gran rischio. Per tutti i motivi che sappiamo. Ne è nato un film a suo modo perfetto. Un’opera vecchia maniera e attualissima, e soprattutto sintesi perfetta di tutto il pippotto fatto finora: è cinema pensato all’interno dell’industria di oggi, con i talenti della “macchina Hollywood” che sanno costruire il meglio dello spettacolo possibile, ma che sa di essere – indovinate un po’ – un classico.

La trama probabilmente l’avrete letta, e in fondo importa poco. Pete “Maverick” Mitchell da pilota è diventato un istruttore di volo; viene chiamato dal vecchio compagno Tom “Iceman” Kazansky (Val Kilmer, che spezza il cuore) ad addestrare un gruppo di aspiranti piloti etnicamente assai misti (è pur sempre la Hollywood del 2022) che potrebbero sventare la solita minaccia nucleare (il Paese nemico, visti i tempi, non è meglio specificato: ma c’è l’atomica, c’è la neve, geopoliticamente non è difficile da collocare sulla mappa); tra i giovanotti c’è anche tale Bradley Bradshaw detto Rooster (Miles Teller, faccia da cinema classicissimo: un caso?), figlio di quel Goose morto in missione accanto a Pete nel primo capitolo.

C’è anche un vecchio amore ritrovato (Jennifer Connelly), un paio di capi stronzi (Ed Harris e Jon Hamm), una ballatona di Lady Gaga, una missione di cui si capisce incredibilmente tutto (un miracolo, visti i garbugli delle avventure Marvel di cui sopra), pochissima CGI e tanto gusto per l’effetto artigianale, un autocitazionismo (e un’autoironia) prettamente 80s che va dalle canzoni in colonna sonora agli abbracci mélo-patinatissimi su sfondo di tramonti infuocati. È tutto scopertamente kitsch ma anche intelligente, divertito, funzionale a quello che dovrebbe essere il cinema sempre, e tanto più oggi. Top Gun: Maverick è evidentemente pensato per riempire le sale che oggi non riempie più nessuno. E, dicevo, riempirle non solo di ragazzini, ma anche di quel pubblico “grande” che può e sa riconoscere tutti i codici del cinema con cui si è formato.

Tutti i codici di un classico. Tom Cruise sarà anche pazzo, stagionato, egomane, ma è tra i pochi, nella A-list hollywoodiana, che sanno davvero cos’è il cinema, e come può aggiornarsi (sopravvivere?) restando fedele a sé stesso. Anche solo per questo, noi nati e cresciuti negli anni del primo Top Gun dobbiamo essergli grati.

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