Vi diranno che Triangle of Sadness, seconda Palma d’oro del portentoso Ruben Östlund dopo The Square, è un film sul nostro tempo. Sull’insta-era che consuma tutto. Sugli scrolloni (noi) e gli scrocconi (gli influencer) che postano foto di spaghetti #foodporn (o la moda è già passata?) e poi non mangiano niente, «è solo per la foto, sono celiaca». Sulle celebs, o presunte tali, che si accoppiano tra loro, «così raddoppiamo i follower». Su quella grande chiesa che va dagli ormai abusatissimi quindici minuti (secondi) di Andy Warhol e arriva fino a Giulia Torelli.
Non credeteci. Tutto questo c’è, ed è deliziosissimo, precisissimo. Ma Triangle of Sadness non è un film sull’oggi: è un film sul Novecento, e il suo (letterale) naufragio. Dopo un avvio che, appunto, ci dà l’illusione che il punto sia la contemporaneità – due modelli fidanzati tra loro, interpretati da Harris Dickinson e Charlbi Dean (morta a fine agosto: l’unico, tristissimo motivo per cui è difficile vedere il film), discutono a cena di parità di genere e altre nobili battaglie della causa digitale – si passa al nodo cruciale del racconto. Che è, appunto, la fine del secolo insieme più breve e più denso. Ambientata su uno yacht che accoglie i due supermodel insieme a ricconi di varia natura. E all’equipaggio che sfrutterà la ghiottissima occasione di un ammutinamento.
Una fine irreversibile, squadernata senza tralasciare nulla: capitalismo e comunismo (l’Internazionale che risuona per i corridoi dello yacht), guerra (i vecchietti inglesi che son diventati ricchi grazie alle bombe a mano) e lotta di classe, che torna – evviva! – tema cruciale dello storytelling corrente (cfr. Parasite e The White Lotus, per dirne due su mille). Senza spoiler: in un ribaltamento wertmülleriano del gioco delle parti, una cazzutissima filippina si ritroverà a tenere in scacco tutti i ricconi. E no: non è il sequel del documentario di Gianluca Vacchi.
È un naufragio prêt-à-porter, perfetto per un reel, e dentro c’è tutto quello che è stato travolto da un manco troppo insolito destino. La nouvelle cuisine e Lenin, e poi Kennedy, l’alta moda, Thatcher, i Rolex, Reagan: non manca niente e nessuno all’appello, soprattutto nel succoso dialogo tra un laido russo e il capitano di crociera (sempre immenso Woody Harrelson). Nessuna orchestrina suona mentre il Titanic (però cafone, pieno di cacca e di vomito) affonda, non c’è redenzione per nessuno, né per i ricchi né per i poveri.
L’unica realtà possibile è il reality, e quindi quella che poteva essere una Tempesta scespiriana – il terzo atto del film – diventa irresistibilmente un’Isola dei famosi dove si barattano buoni addominali per un sorso d’acqua (però Evian). Östlund, per alcuni sopravvalutato, è furbo ma lucido, compiaciuto ma sempre capace di cogliere l’esprit du temps, dagli egoismi privati (Forza maggiore) agli individualismi collettivi (prima The Square, ora questo).
Triangle of Sadness gli è valso, dicevo, la seconda Palma, ora è passato alla Festa di Roma, esce in sala il 27 ottobre. Se per un attimo volete mollare lo scroll su Instagram, è il film giusto da vedere. Portatevi un sacchetto per vomitare – o dei fazzoletti per piangere la fine di quel secolo bellissimo, di cui ci siamo dimenticati per l’ansia di selfarci.