Se D.A. Pennebaker non avesse fatto altro che salire su un volo per Londra con una camera da 16 mm in mano e seguire un giovane cantante magrolino che si scontrava con i giornalisti, era adorato come un dio dai capelli crespi e si divertiva con le bravate alimentate dall’entourage, si sarebbe comunque assicurato un posto nella storia del rock e del cinema. La foto più nota del documentarista, noto come “Penny” per amici e colleghi, ritrae l’allora trentanovenne che indossa un cappello a cilindro, inclinato baldanzosamente da un lato. Sulla spalla ha un telecamera che gli copre metà del viso. L’indice sinistro è rivolto verso l’alto e posizionato davanti all’occhio. È sullo sfondo, proprio dove ha sempre voluto essere. Sembra felice di avere un posto in prima fila nella Storia. Seduto proprio di fronte a lui, insolitamente a fuoco, c’è il suo soggetto: Bob Dylan versione 1965.
Ora diamo per scontato che Dont Look Back, la cronaca che segue Dylan mentre affronta il moderno gioco della celebrità e gli fa una pernacchia, è lo sguardo definitivo al menestrello in bilico tra profeta riluttante e rockstar a tutto tondo. Pennebaker ha impiegato due anni per convincere qualcuno a mostrare il film in pubblico; alla fine l’operatore di un cinema porno di San Francisco l’ha proiettato in una piccola sala, dove è stato in programma per oltre un anno. La litania di celebrazioni e mortificazioni catturati nel film lasciano ancora a bocca aperta. È una sorta di pass per tutto il dietro le quinte, che risulta ancora elettrizzante e talvolta scomodamente intimo. Sei lì, tra il pubblico della Royal Albert Hall, mentre Dylan suona. Entri nel backroom mentre Albert Grossman negozia accordi e assisti a una chiaccherata dell’entourage. Sei seduto accanto a Bob, che diventa impaziente con i giornalisti, scherza con Joan Baez e Bob Neuwirth, e quasi raggiunge quel suono sottile e mercuriale che inseguiva. Sei lì perché c’era Pennebaker.
Il documentarista, morto per cause naturali il 1° agosto all’età di 94 anni, aveva un talento per essere nel posto giusto al momento giusto, con il dito sul grilletto Arriflex. Sapeva che, più si avvicinava e si fondeva con lo scenario in modo che il soggetto dimenticasse di lui, più era probabile catturare qualcosa di paragonabile alla verità 24 fotogrammi al secondo. Donn Alan Pennebaker aveva studiato ingegneria, prima che un breve apprendistato con Francis Thompson lo portasse sulla strada del cinema documentaristico. I primi lavori, come Daybreak Express (1953) e Baby (1954) furono essenzialmente cortometraggi sperimentali, con il primo che mette in scena un bel mix di musica e immagini e il secondo che dimostrava a D.A. stesso, detto con parole sue: “Dovrei osservare, non dirigere”…
Presto si sarebbe unito a una sfilza di documentaristi – Robert Drew, Richard Leacock, Albert Maysles, Terence Macartney-Filgate – e avrebbe contribuito a formare un’unità cinematografica presso la Time Inc. Lavori come Primary (1960) e Crisis (1963) non sono solo capsule del tempo politiche dell’era Kennedy. Hanno contribuito a dare vita a una forma completamente nuova di cinema dell’osservazione, spesso soprannominato direct cinema, cinéma vérité. Sono alla base del documentario 2.0. “[Il presidente Kennedy] non ci ha mai considerati al pari del telegiornale delle sei”, ha affermato Pennebaker a un panel nel 2016. “Le nostre telecamere documentavano la Storia”.
Drew & Co. sono stati in grado di catturare quei momenti grazie anche a un’innovazione tecnologica che Pennebaker ha contribuito ad avviare, sotto forma di una nuova camera in grado di sincronizzare il suono con le immagini in modo molto più efficiente. (Il conto lo ha pagato la rivista Life). Una volta in proprio, avrebbe ulteriormente personalizzato la sua arma preferita, rendendola più leggera e aggiungendo una presa che consentiva a chiunque di montarsela sulla spalla. È quella la camera che si vede nel famoso scatto di Dont Look Back. È la stessa che avrebbe portato al Monterey International Pop Music Festival nel 1967, caricata con una nuova pellicola ad alta velocità, quando è stato invitato a coprire l’evento, dando vita a Monterey Pop (1968), ampiamente riconosciuto come il primo film-concerto moderno. (Jazz in a Summer’s Day è arrivato nel 1959, ma questo era un’altra partita). Hendrix dava fuoco alla sua chitarra, gli Who rompevano la loro attrezzatura. Otis Redding e Janis Joplin cantavano in tutta la loro stropicciata gloria soul, Mama Cass veniva beccata in versione fangirl e Mickey Dolenz mentre ballav beato sulle note di Ravi Shankar. Benvenuti negli anni Sessanta. Buon trip.
I documentari musicali di Pennebaker costituiscono un genere a parte. Penny era all’Hammersmith Odeon nel 1973 quando David Bowie si esibì nell’ultimo concerto di Ziggy Stardust, motivo per cui possiamo ancora provare il brivido di vedere Bowie nella sua tunica da astronauta d’argento cantare di messia dei lebbrosi e suicidi del rock & roll. (Ziggy Stardust and the Spiders From Mars, 1973.) Era a Toronto nel 1969 quando John Lennon si esibì al fianco di Little Richard, Eric Clapton e Bo Diddly (John Lennon e la Plastic Ono Band: Sweet Toronto, 1971). Lui e la compagna di lunga data Chris Hegedus erano al Rose Bowl nel 1988 quando i Depeche Mode finirono il loro tour Music for the Masses (Depeche Mode 101, 1989), a Pasadena e al Ryman di Nashville, nel Tennessee nel 2000, quando Emmylou Harris, Gillian Welch e altri ancora si esibirono in tagli d’epoca, dalla colonna sonora bluegrass più venduta a Fratello dove sei? (Down From the Mountain, 2000).
Quello che colpisce di questi documentari non sono solo le grandi esibizioni ma i momenti più ridotti e improvvisati in cui Penny filma questi personaggi famosi: Dylan che scrive a Londra, Mama Cass che dice “wow!” dopo Ball and Chain, Bowie che scherza con la moglie Angie sul trucco, T-Bone Burnett intento a reclutare un chitarrista bluegrass per accelerare il ritmo, Dave Gahan che canta Love Is the Drug dei Roxy Music mentre gioca a flipper. E con Depeche Mode 101, Pennebaker e Hegedus hanno avuto la lungimiranza di far salire alcuni cameramen su un autobus che portava un branco di superfan teenager (o poco più= attraverso tutto il paese a quello show al Rose Bowl, catturando tutte le loro interazioni e discussioni, comprese le bevute da ubriachi. In altre parole: cosa succede quando le persone smettono di cantare il testo di Stripped e iniziano a fare sul serio? Nascono delle stelle nella vita reale. Tre anni dopo, The Real Word di MTV trasformerà quel concetto in pane per l’industria.
La combinazione data dal metterti nel bel mezzo di qualcosa come spettatore e contemporaneamente dietro le quinte come partecipante non era limitata ai suoi progetti musicali. Town Bloody Hall (1979) – la gemma sconosciuta della sua filmografia – segue Norman Mailer e una sorta di chi è chi delle femministe di seconda ondata discutere in un summit intellettuale del 1971 a New York City. Solo Hegedus è riuscita a convincere D.A. che il materiale, tenuto fermo per anni, avrebbe potuto essere assemblato in qualcosa di utilizzabile: vedere questo capolavoro oggi è sia un avvincente distorsione temporale che un promemoria che fa riflettere sul fatto che plus ça change ecc. The War Room (1993) ci permette di entrare nella stanza dove nasce tutto insieme a Bill Clinton e ai suoi strateghi, tra cui George Stephanopoulos e lo scatenato cajun James Carville, mentre organizzano la campagna presidenziale – non troverete uno sguardo più approfondito su come si faceva politica negli anni ’90 e su come si è trasformata sotto i nostri occhi. Original Cast Album: Company (1970) coglie quasi come una talpa tutti i momenti più bisbetici e brillanti di Stephen Sondheim e del grande e compianto Hal Prince, che mettono alla prova i membri del cast della commedia vincitrice del Tony mentre registrano la colonna sonora. Il fatto che le persone stiano recuperando questo singolare cringe-comic doc grazie alla strepitosa parodia di Documentary Now è una grande vittoria.
I grandi documentaristi fanno questo: catturano qualcosa di grande in primo piano e qualcos’altro di potentemente narrativo sullo sfondo, cristallizzando ogni cosa e allo stesso tempo facendo sembrare tutto così vivo. Questo è ciò che Pennebaker ha fatto durante la sua carriera, dall’inizio alla fine, come può testimoniare il suo ultimo film Unlocking the Cage – un ritratto dell’attivista per i diritti degli animali Stephen M. Wise del 2016, che ha co-diretto con Hegedus. Il suo contributo riguardo al modo in cui guardiamo alla storia della seconda metà del XX secolo è profondo. Il suo impatto sul cinema di nonfiction non è solo prezioso ma insondabile. “Se una nuova generazione di registi sarà interessata a quella forma di film chiamata ‘documentario'”, osserva nel libro Imagining Reality, “sarà solo perché lancia scintille nuove, non notizie vecchie”. Pennebaker ha trasformato quel concetto in una realtà genuina ogni volta che accendeva una camera e la puntava verso qualcuno o qualcosa. E ogni volta che lo faceva, non guardava mai indietro.