Scrivi di quello che conosci, dicono. E la forza di Sofia Coppola è proprio questa: la sua filmografia esplora spesso tematiche come celebrità, adolescenza, ricchezza, privilegio, isolamento, malinconia. D’altra parte è la figlia maggiore di una leggenda, Francis Ford Coppola, che ha plasmato Hollywood come la conosciamo oggi. Negli anni, le accuse di nepotismo l’hanno spesso accompagnata (vedi la sua interpretazione della figlia di Michael Corleone nel Padrino – Parte III), mettendo anche in ombra il suo impressionante debutto da autrice, Il giardino delle vergini suicide. Lei però è riuscita a creare uno stile unico e a ritagliarsi il proprio posto nel cinema americano, grazie anche a un Oscar per la migliore sceneggiatura con Lost in Translation e al Leone d’oro alla Mostra di Venezia (per Somewhere), prima donna americana a portarlo a casa. E seconda in assoluto a vincere il premio come miglior regista al Festival di Cannes (per L’inganno). Coppola combina il suo amore per la moda, la fotografia e la musica in una sensibilità estetica impeccabile, accompagnata spesso da una prospettiva profondissima sulla particolare solitudine dell’esperienza femminile. Abbiamo cercato di mettere in fila i suoi titoli cinematografici (sorry, A Very Murray Christmas).
Bling Ring
2013Bling Ring è una perfetta capsula del tempo degli anni ’10: la musica, la moda (appunto), lo slang e – soprattutto – i social media. Il film drammatizza la storia (vera) di un gruppo di adolescenti ossessionati dalle celebrity che hanno svaligiato diverse case di lusso (namedrop: Paris Hilton e Lindsay Lohan, tra le altre) a Los Angeles e dintorni. Featuring un’ottima fotografia, una super colonna sonora (inclusi alcuni dei più grandi successi hip-hop del periodo) e Emma Watson che si lascia alle spalle Hermione (più o meno), Bling Ring è una satira profetica su come fandom, reality e consumismo abbiano devastato una generazione, intrappolata tra il desiderio dei 15 minuti di fama di Andy Warhol e l’essere nessuno. Coerentemente e orgogliosamente “troppo”.
On the Rocks
2020On the Rocks è un’opera minore nella filmografia di Coppola? Forse sì. Per lei è anche il primo lungometraggio che non ruota intorno alla confusione della giovinezza, ma invece alle ansie dell’età adulta. Una dramedy vivace e tenera starring Rashida Jones, nei panni di una scrittrice newyorkese convinta che il marito la tradisca, e un grande Bill Murray (again, vedi più avanti), il fascinoso padre playboy che vuole aiutarla. Il film esplora la complessità della relazione tra padre e figlia e per molti versi è una versione matura di Somewhere, anche se non ne raggiunge la poesia e la profondità. Tra i due protagonisti però c’è un affetto così genuino da elevare On the Rocks ben al di sopra del genere a cui – in qualche modo – appartiene.
L’inganno
2017Primo (e unico) remake by Sofia. Il film originale era La notte brava del soldato Jonathan del 1971 (tratto a sua volta dal romanzo di Thomas P. Cullinan del 1966), diretto da Don Siegel e con Clint Eastwood nel ruolo del titolo. È probabilmente il progetto più dark, ambizioso e pulp di Coppola, e anche un allontanamento assolutamente intenzionale da quello che il pubblico si aspetta da lei: uno psicodramma gotico ambientato verso la fine della Guerra civile americana, in cui un soldato dell’Unione ferito (qui interpretato da Colin Farrell) trova rifugio e cure in una scuola femminile, destabilizzando studentesse, professoresse e preside (Elle Fanning, Kirsten Dunst – ormai due habituée – e Nicole Kidman). L’obiettivo di Coppola è mostrare una prospettiva femminile (e femminista) e dare corpo all’angoscia delle donne. La critica tagliente ai costumi del Sud e all’oppressione del “sesso debole” è servita.
Priscilla
2023Non poteva che essere Sofia Coppola a portare sullo schermo “la versione di Priscilla” (che ha il volto di Cailee Spany). E già la prima sequenza è un’elegante istantanea del suo cinema: i piedi con le unghie laccate corallo su sfondo di moquette rosa, l’occhio bistrato con la virgola di eyeliner, le ciglia finte da cerbiatta, la cofana corvina. Sono frammenti della donna che è entrata nell’immaginario collettivo, quella che Elvis ha “creato” per sé: «Ero la sua bambola vivente, mi ha insegnato tutto», scrive Priscilla (che è anche produttrice del film) herself nel suo memoir, di cui appunto il lungometraggio si nutre spesso e volentieri. Saggiamente Coppola dipinge The King of Rock’n’Roll (interpretato da Jacob Elordi) attraverso gli occhi di lei: niente concertoni ma vita quotidiana, pillole e scatti di rabbia compresi. E gira il percorso di autodeterminazione femminile di un’adolescente che ha vissuto un sogno, almeno finché non si è resa conto di voler essere se stessa.
Somewhere
2010In un certo senso, Somewhere è l’altra faccia di Bling Ring: affronta l’isolamento e il sentimento di vuoto che derivano dal denaro e dalla fama. Da nepo baby all’ennesima potenza, Coppola usa la sua prospettiva privilegiatissima per una dolorosa riflessione sul lato oscuro della celebrità. Stephen Dorff è Johnny Marco, una star del cinema che vive allo Chateau Marmont ed è costretto improvvisamente a prendersi cura a tempo pieno della figlia undicenne Cleo (Elle Fanning). Pensate al personaggio come a un precursore di Bojack Horseman: un attore in crisi esistenziale che sfugge al suo disagio stordendosi tra sesso e sostanze. Non c’è nessun colpo di scena, nessun dramma, nessuna trama persino. Non ce n’è bisogno, perché Somewhere è uno studio su due personaggi: un figlia preadolescente sensibilissima e un padre assente. È una rappresentazione personale, intima e nitida della noia che essere “qualcuno” a Hollywood porta con sé. Ancora troppo sottovalutato, nonostante il Leone a Venezia.
Il giardino delle vergini suicide
1999«Non sapevo davvero di voler fare la regista finché non ho letto Le vergini suicide e ne ho avuto una visione chiarissima», ha detto Coppola. Che cattura le pieghe del romanzo di Jeffrey Eugenides e dirige meravigliosamente le sue attrici, facendo brillare una volta per tutte la stella di Kirsten Dunst. Negli anni ’70, in un sobborgo di Detroit, cinque sorelle adolescenti crescono in una famiglia religiosa opprimente, isolate e mitizzate dai coetanei del quartiere. Per farla breve: tutte le fanciulle si uccidono e i ragazzi non ne sapranno mai davvero il motivo. Ma non importa: Il giardino delle vergini suicide è una tragedia di formazione d’atmosfera, il canto di un’adolescenza malinconica, lirica e sognante che Coppola dipinge quasi come un ricordo ormai perduto. È una rappresentazione sofisticata dell’inerzia e della depressione, con una meravigliosa colonna sonora degli Air. E segna la miglior battuta uscita da un film dell’autrice: dopo il suo primo tentativo di suicidio, una delle protagoniste dice al suo medico “Ovviamente, dottore, lei non è mai stato una ragazzina di 13 anni”.
Marie Antoinette
2006Anche Maria Antonietta, in fondo, è un’altra adolescente solitaria, che non conosce altro modo di vivere se non cogliere l’attimo e che usa la sua ricchezza come scudo per compensare il vuoto che ha dentro e intorno. E allora viva l’inaccuratezza storica se diventa arte, se ci regala il décor più delizioso mai visto al cinema, se dà vita a un genere, il period piece überpop (The Great ringrazia) giocando sfrenatamente con la musica contemporanea sulle quadriglie. Che meraviglia Kirsten Dunst (again), che meraviglia tutto. Sta a noi poi conciliare quella rappresentazione sontuosa con l’inevitabile consapevolezza che ogni nastro di seta e ogni torre di macaron sono soltanto un altro passo verso la ghigliottina. Però per due ore, grazie a Coppola, una donna passata alla Storia per la sua morte (e, certo, per le brioche) è ancora una volta viva e più vibrante che mai.
Lost in Translation – L’amore tradotto
2003Ancora una volta ispirato all’esperienza personale di Sofia (in questo caso, il periodo in cui era sposata con Spike Jonze), è il film più amato, più conosciuto e che ha incassato di più di Coppola; e quello che le è valso anche un Oscar per la miglior sceneggiatura originale e una nomination per la regia, terza donna nella storia dell’Academy. Scarlett Johansson è la giovane moglie di un celebre fotografo, Bill Murray un vecchio divo del cinema in crisi: entrambi si trovano in un hotel di lusso a Tokyo insonni, soli e spaesati. E sviluppano un legame improbabile e bellissimo. Coppola riesce a catturare sentimenti universali di alienazione, shock culturale e jet lag: Lost in Translation (che debuttava 20 anni fa esatti) è catartico proprio perché centra qualcosa che tutti abbiamo provato nella vita. Ancora una volta, chissenefrega della trama (la struttura narrativa non convenzionale diventerà un marchio di fabbrica dell’autrice): sono le vibrazioni a contare. La regista lascia spazio ai personaggi per respirare e agli attori per improvvisare, cosa in cui Murray è – si sa – un vero pro. Alla sua opera seconda, quel cognome da Hollywood royalty ormai non le serve più per entrare nella storia del cinema contemporaneo.