Lo capisci subito. Anzi, di più: “lo vedi”. Perché non c’è nessun motivo per negarlo, per nasconderlo, per truccarlo da metafora o farne citazione. O, peggio, omaggio. C’è e basta: e nessuno ci costruisca sopra una speculazione. Perché sì, è talmente evidente, talmente lampante, che quasi non ci credi: ma non puoi esimerti dal fare finta di niente. In fondo è proprio lì, in quell’angolo, in quel trompe-l’œil che illusione non è, che ti vuole portare.
C’è De Sica (Vittorio, of course) nell’ultimo film di Asghar Farhadi. C’è Ladri di biciclette. Definitivamente. Palesemente. E non puoi esimerti almeno per un secondo di pensare che di anni ne sono passati più di 70. È un brivido che dura un istante, quello in cui pensi che noi questo film lo facevamo già settant’anni fa: solo che “questo film” è un altro film. Che sì guarda con ammirazione all’etica, a volte anche feroce, zavattiniana: ma la aggiorna calandola nell’infernale epoca 2.0 dei social. E fa pure di più: perché il furto della bicicletta, il pianto del bambino in primo piano, quella vergogna straziante che è l’architrave della storia del cinema De Sica non la nasconde a nessuno. Mentre Asghar Farhadi, un signore che probabilmente darà parecchio filo da torcere al nostro Sorrentino nell’Oscar race (che il regista iraniano ha già vinto due volte), è abituato da sempre a celare – e a negare – l’evento motore dei suoi film. Non è una differenza da poco: ma la ragione per cui, forse, valeva la pena attendere oltre settant’anni.
Succede con l’aggressione del Cliente, capita nel caso del rapimento di Tutti lo sanno o nella sparizione di Elly in About Elly: l’evento cruciale o – come è in questo caso, il ritrovamento di una borsa con dell’oro – che comunque dà il via alla vicenda, viene nascosto, accade sempre in un altrove dove lo spettatore non ha accesso. È cosa data, è evento già successo: non ci saranno didascalie né flashback a correrci in aiuto. Saremo costretti a farci la nostra idea, a cercare la nostra verità: che non è detto collimi con quella del regista. Ma il gioco è proprio questo: che lo spettatore non sia passivo, non subisca semplicemente l’azione che vede sullo schermo, ma che affronti, senza pregiudizi, il dubbio.
Che poi è quello che esattamente accade in Un eroe, l’intenso seppure asciugato di tutto (musica, fotografia…) apologo morale di un grande autore capace di leggere in profondità, nell’impasse burocratico di un Paese che sembra sempre fermo al punto di partenza, contraddizioni umane e universali. Là dove non c’è luce senza ombra, e i personaggi sono persone: che cercano, in qualche modo, di sopravvivere. Anche alle proprie debolezze. Gente come Rahim, che esce dal carcere per due giorni di permesso. Se non ci vuole ritornare deve convincere il suo creditore, con il quale ha un grosso debito, a ritirare la denuncia: ma quello vuole i soldi che gli spettano. Ma forse la fortuna ha smesso di girargli le spalle: la sua compagna ha trovato una borsa con dell’oro e restituirlo potrebbe trasformarlo nell’eroe del giorno…
La parabola – come spesso accade nel cinema del regista iraniano – diventa giallo esistenziale, ma questa volta l’impulso etico allarga gli orizzonti a una funzione sociale: perché cavalcando il già molto sfruttato dalla cultura occidentale tema dell’eroe (fasullo), Farhadi costruisce una riflessione urgente e incisiva sui media e sulla reputazione al tempo dei social. In un fraintendimento universale dove la dignità resta una strada perennemente in salita.