‘Una notte a New York’: la recensione del film con Dakota Johnson e Sean Penn | Rolling Stone Italia
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‘Una notte a New York’: se ‘Taxi Driver’ diventa un corso di laurea in gender studies

L’esordio alla regia di Christy Hall non risparmia i soliti luoghi comuni della guerra fra i sessi. Ma per fortuna ci sono Dakota Johnson e Sean Penn ad alzare il livello di questo notturno metropolitano

‘Una notte a New York’: se ‘Taxi Driver’ diventa un corso di laurea in gender studies

Dakota Johnson in ‘Una notte a New York’

Foto: Lucky Red

Come i baristi e le bariste, i tassisti possono ipoteticamente fungere da terapeuti: sono figure che prestano un orecchio per ascoltare e una spalla per piangere. Se fate scorrere il tassametro abbastanza a lungo, forse riuscirete a sfogarvi direttamente in una corsa. O almeno, la versione romantica e da film di un tassista vecchio stile potrebbe essere così. Potreste trovare un autista di Uber che muore dalla voglia di sapere tutto della vostra vita, ma è più probabile che si tratti di un altro lavoratore della gig economy che cerca di arrivare a fine giornata. Sempre che, ovviamente, non si tratti di un vero e proprio terapeuta al volante, che lavora in nero per sbarcare il lunario.

Una notte a New York (nelle sale italiane dal 19 dicembre con Lucky Red, ndt) si basa sul mito del tassista come saggio di periferia e analista fai-da-te, ma in un modo che sembra al tempo stesso pittoresco e un po’ inquietante. Innanzitutto, bisogna credere che, data la “tempesta perfetta” di circostanze – un viaggio dall’aeroporto JFK al centro di Manhattan che viene improvvisamente e opportunamente prolungato dal traffico –, nell’anno del Signore 2024, una giovane donna di meno di trent’anni possa lasciarsi andare a una chiacchierata piccante con un autista sessantenne che si trasforma in una guerra dei sessi. Sono successe cose più strane, certo. Ma la premessa richiede una buona dose di sospensione dell’incredulità fin dall’inizio. E anche se si accetta l’idea che sta alla base di questo film, la sceneggiatrice e regista Christy Hall ha il compito di convincere che creature del genere si aggirano ancora sulla Terra, offrendo consigli come se fossero dentro un intimo confessionale.

La parte “inquietante” è data dal casting, ed è qui che Una notte a New York riesce almeno a rendere questo film a due mani molto, molto più interessante di quanto dovrebbe essere. Dakota Johnson è la donna che sale sul sedile posteriore – nei titoli di coda è indicata solo come “la ragazza” – e torna a casa sua sulla 44esima Strada, tra la Nona e la Decima. Sean Penn è Clark, l’uomo al posto di guida che viene dal Queens.

Lui è un po’ piacione, tiene gli occhi fissi nello specchietto retrovisore e si mette a fare due chiacchiere mentre l’auto si dirige verso il centro. Per quanto riguarda “la ragazza”, è adeguatamente diffidente ma anche sorprendentemente disponibile, e non si oppone a scherzare con quell’uomo molto più maturo di lei. Ascolta i suoi sproloqui sul fatto che nessuno usa più le banconote e che tutti caricano le loro informazioni su quel grande Cloud digitale. “Un giorno quella nuvola si aprirà e rovescerà una pioggia acida sulle nostre stupide teste”, sostiene Clark. Non si tratta esattamente di “una vera e propria pioggia che spazzerà via tutta la feccia dalle strade”, ma non si può avere tutto.

Una notte a New York - Con Dakota Johnson e Sean Penn | Trailer ITA HD

Nel frattempo, il telefono della “ragazza” sta esplodendo di messaggi da parte dell’uomo più arrapato di tutta New York, che oscilla tra la richiesta di informazioni sul viaggio della giovane ragazza e la preghiera di aiutarlo a venire (sì, in quel senso) il prima possibile, senza curarsi del fatto che lui è in un bar e lei nel retro di un taxi sulla tangenziale. Clark si accorge che questi messaggi stanno chiaramente infastidendo la sua passeggera. Sembra anche intuire che a) l’uomo è più vecchio di lei, b) “la ragazza” non è sua moglie e c) lei ha una relazione problematica con suo padre. Ben presto, la curiosità porta a una conversazione più approfondita su ciò che vogliono gli uomini e le donne, sul perché lo vogliono, su come il sesso c’entri sempre, sul perché lei non otterrà mai ciò che vuole da quell’uomo, sul passato di lei, sul passato di lui, eccetera.

A questo punto i convenevoli sociali sembrano essere usciti di scena. Idem per i limiti. L’idea è in qualche modo che, gironzolando sulla 495 mentre la polizia sgombera un incidente d’auto, possono essere lanciate un sacco di bombe. La domanda non è se le pretese di educazione saranno abbandonate in nome della “concretezza”. La domanda è piuttosto: cosa succederebbe se Taxi Driver fosse in parte un corso di studi sul gender e in parte una seduta di terapia? C’è una parola per questi particolari tipi di incontri, quando li si vede al cinema, ed è: “stronzate”. È difficile scrollarsi di dosso la sensazione di guardare dei portavoce umani che sciorinano discorsi retorici in nome di una sorta di intuizione profonda e, il più delle volte, non è così, non riuscendo a raggiungere gli obiettivi prefissati.

A complicare le cose ci sono gli attori, in particolare il fatto che non si sopporta di sentirli costretti a pronunciare queste battute, ma non si riesce a distogliere lo sguardo da ciò che fanno entrambi mentre sono bloccati in quello spazio così ristretto. La carriera di Johnson è stata ingiustamente ridotta a un lungo supercut di occhi alzati al cielo, mentre in realtà è un’interprete straordinariamente dotata, capace di fare molto di più che comunicare l’ennui dei millennial o impersonare una certa idea di sexiness. L’attrice porta un’intrigante dose di vulnerabilità e incertezza al suo personaggio, che sembra davvero insicuro riguardo alla relazione sentimentale che sta vivendo. State guardando una persona che interpreta una donna che finge di essere stordita, ma che non lo è. È una performance fatta di difese che vengono costantemente abbassate e alzate.

Il suo rapporto con Penn, che è senza dubbio la ragione principale per seguire la lezione di Una notte a New York sulle differenze tra Marte e Venere, è sufficiente a impedire che alcuni dei più discutibili botta e risposta si trasformino in veri e propri ululati. E l’idea di far interpretare a Penn questo filosofo della strada, probabilmente paterno e forse predatore, è l’unica cosa davvero ispirata del copione. Tra questo e il recente Black Flies, Penn si sta ritagliando una bella nicchia di fine carriera come abitante notturno di New York, e il modo in cui conferisce a Clark un fascino genuino e working class e una bizzarra cavalleria – ma condita con quel tanto di pericolo che basta a farvi chiedere se alcune di quelle opinioni da sub-neandertaliano non siano minacce sotto mentite spoglie – conferisce tutta un’altra dimensione a questo lungo e oscuro viaggio dell’anima. Guardare questo attore lavorare rimane un piacere meraviglioso, anche se sempre più raro. Bisogna solo pagare un pedaggio piuttosto salato per farlo con questa prova di resistenza.

Da Rolling Stone US