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Vale la pena vedere ‘We Live in Time’ per Florence Pugh e Andrew Garfield

Mescolando gli alti e bassi di una lunga relazione, anche se qui la tragedia incombe, si può aggiungere qualcosa di unico al sottogenere dei film romantici strappalacrime? Sì, se hai due attori così

Foto: PETER MOUNTAIN/A24

Piangono per una diagnosi di cancro, sognano un futuro luminoso, insegnano alla figlia di cinque anni a cucinare, vivono un parto nel bagno di una stazione di servizio, fanno pace, si lasciano, si incontrano per caso: non ricordiamo se questo è l’ordine esatto della relazione che vediamo svolgersi, prima di ripiegarsi rapidamente su se stessa, in We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo. Ma la storia cronologicamente non lineare di due anime gemelle by John Crowley si basa sull’idea che, mescolando gli alti e bassi che caratterizzano una lunga relazione, anche se qui la tragedia incombe, si aggiunga qualcosa di unico al sottogenere dei film romantici strappalacrime. Love Story ci ha insegnato che amare significa non dover mai dire “mi dispiace”. La conclusione remixata e riordinata di questo film potrebbe essere che l’amore, mi rincresce dirlo, non è destinato a stare al tuo fianco per sempre.

“Quindi questo lubrificante dei condotti lacrimali ruota attorno a questo semplice espediente?”, potreste chiedervi a questo punto (o, nello spirito del film, potreste chiedervelo dopo aver ricevuto la risposta senza alcun contesto 20 minuti prima). Sì, il caos di informazioni vi farà domandare cosa sta succedendo quando e se i due personaggi principali – Almut (Florence Pugh), chef, e Tobias (Andrew Garfield), impiegato in un’azienda di cereali – hanno già scoperto la notizia che cambierà tutto e in quale fase della loro relazione si trovino. No, non è per questo che uscirete dal film con gli occhi rossi e il naso che cola. Lo sceneggiatore Nick Payne è noto soprattutto per la sua pièce teatrale del 2012 Constellations, un’opera simile che racconta la storia di una coppia innamorata e comprende sempre una morte e una presentazione dei personaggi un po’ confusa. (Il revival del 2021 al Donmar Warehouse, che ha visto la partecipazione di quattro duetti a rotazione, è disponibile in streaming sul sito del National Theatre.) Il pubblico però non si è riversato in massa a guardare questa pluripremiata opera teatrale britannica a causa dell’aspetto temporale. Erano lì per vedere attori famosi cimentarsi in una performance che consentiva loro di dare il massimo e di toccare le corde più profonde del cuore.

Ed è il duo di We Live in Time a rendere questo film degno di essere visto, anche se il peso emotivo è leggermente sbilanciato in termini di divisione del lavoro. Li abbiamo già visti come una coppia affettuosa e come futuri genitori ansiosi, prima di avere l’opportunità di assistere al loro primo incontro, per gentile concessione di Almut che investe Tobias con la sua auto (lui era uscito dall’albergo in accappatoio e attraversava la strada mentre cercava di prendere una matita per firmare i documenti del divorzio – è, ehm, complicato). Abbiamo origliato mentre Almut cercava di evitare un secondo giro di chemio, nonostante non conoscessimo i dettagli dei suoi primi trattamenti, prima di fare da voyeur riguardo al loro primo appuntamento al ristorante che lei aveva appena aperto. Li abbiamo già visti crescere la loro bambina, Ella (Grace Delaney), prima di lanciarsi in una discussione accesa, quasi decisiva, sul perché non avranno mai figli. La fine è a metà, mentre la metà è l’inizio, eccetera eccetera.

In altre parole, We Live in Time non ci dà il tempo di scoprire i protagonisti mentre si conoscono, che di solito è il modo in cui uno spettatore si affeziona a questi compagni di vita, mentre le sorprese esistenziali arrivano una dopo l’altra e il triste mietitore inizia purtroppo a tamburellare con il suo orologio. C’è anche una trama secondaria, che vede Almut reclutata per rappresentare la Gran Bretagna in un prestigioso torneo internazionale di cucina, a cui sa di essere troppo malata per partecipare, e a cui decide di andare comunque senza dirlo alla sua famiglia: una mossa potenzialmente alienante per qualcuno che, secondo la tradizione dei film strappalacrime, dovrebbe un po’ elemosinare la nostra compassione.

Spetta a Pugh rendere questa donna abbastanza complessa da resistere all’istinto di definirla semplicemente egoista (una sensazione fastidiosa che la sceneggiatura stessa sembra supportare, anche quando Almut afferma che lo sta facendo perché sua figlia sia orgogliosa di lei), oltre a comunicare i rimpianti e le paure, l’attaccamento all’ottimismo e la filosofia di scalare ogni montagna il prima possibile, che iniziano a sopraffarla dopo la diagnosi. Tocca a Garfield convincere che il suo percorso verso la vedovanza, per non parlare delle sue preoccupazioni su come la figlia gestisca la malattia e sul suo tentativo di tenere a bada il proprio dolore per non perdere la gioia del loro tempo insieme che sta diminuendo, sembri autentico e sofferto. E spetta a loro due, insieme, far credere che stiamo guardando una vera coppia innamorata e in crisi, e non solo una coppia sullo schermo che si limita a indossare costumi di scena e a portarsi le mani alla testa.

Fortunatamente due talenti come questi sono preparatissimi ad affrontare il compito. Crowley ha lavorato con Garfield quando l’attore ha ottenuto il suo primo ruolo da protagonista in Boy A (2007), e si può percepire un interprete che si sta adattando a una parte che gli consente di addentrarsi in luoghi più profondi e forse più dolorosi, pur continuando a interpretare il ragazzo dei sogni un po’ imbranato e tutto sospiri. Qui si ha la sensazione che stia maturando verso una nuova fase da protagonista, un po’ meno “adorabile”. Pugh continua a costruire la sua carriera su un talento di base che sembra sconfinato e, per tutti i lavori che l’hanno costretta a puntare su vittime da horror ultrapop, su mogli rétro gaslighted, su decane dei film d’epoca e su supercriminali con accento russo, riesce a scavare in una donna “normale” che si ritrova ad affrontare la sua mortalità con tutto l’entusiasmo possibile. D’accordo, è anche una chef famosa ed è costretta a partorire in una stazione di servizio, in quella che in qualche modo è la sequenza più intensa e tenera stile Love Actually dell’intero film. Ma tant’è. Sappiamo di sembrare un disco rotto quando affermiamo ancora una volta che potrebbe essere la più grande attrice cinematografica della sua generazione, ma è difficile non pensarlo mentre la guardiamo riempire i vuoti di questo personaggio meno eccentrico e più concreto del solito (per lei) e nonostante questo continuare silenziosamente a stupirci.

Andrete al cinema per una sorta di Scene da un matrimonio pasticciato, senza un vero matrimonio per la maggior parte della narrazione. Rimarrete lì a guardare, perché questi due comunicano in modo così meraviglioso che i rompicapi della narrazione quasi non vi infastidiranno. (Un consiglio da professionisti: se siete convinti che solo la scena finale si svolga ai giorni nostri e che il resto del film sia in realtà solo un flusso di ricordi che vi piombano addosso in modo casuale, come spesso accade, il concetto formale funziona dieci volte meglio.) We Live in Time è un film di attori per necessità, se non sempre per scelta. Saprete la destinazione prima ancora che il film inizi. Pugh e Garfield fanno sì che il finale valga il viaggio, indipendentemente da dove lo si collochi nel tempo.

Da Rolling Stone US

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