Il ragazzo più bello del mondo (al cinema il 13, 14 e 15 settembre) m’ha fatto subito venire in mente Troppo belli con Costantino Vitagliano e Daniele Interrante. L’idea di Bello (maiuscolo) di Luchino Visconti – ci arriveremo presto – contro quella di un’epoca – il tronismo metrosexual – che non esiste più, o forse nel Paese Reale esiste ancora. Ma poi ho ricacciato il pensiero, perché oggi non si può più pensare niente. Oggi parlare di Bello è insidioso, autolesionista, impossibile. Viviamo nel tempo della body positivity, del siamotuttibelli sempre e comunque; ma è anche il tempo in cui facciamo duecentotrentaquattro selfie prima di postare quello in cui appariamo più belli di come siamo. Anche se ci hanno detto che siamo comunque belli. Insomma ci si perde, vale tutto e non vale niente, dunque vedere questo documentario fa uno strano effetto.
Visconti, torniamo al film, s’era messo in mente di fare Morte a Venezia per il cinema. Una versione che sarebbe stata più Proust che Mann, ma che senza l’elemento cruciale sarebbe facilmente naufragata. L’elemento cruciale era: per il ruolo di Tadzio, il ragazzino di cui s’innamora (di un Amore anch’esso maiuscolo e sublimato, ma anche/forse no) il professor Gustav von Aschenbach, serviva appunto il ragazzo più bello del mondo. Immaginate oggi come verrebbe presa la richiesta di un regista (bianco e privilegiatissimo) di un casting di quel tipo.
Il film di Kristina Lindström e Kristian Petri, molto piaciuto agli americani del Sundance, comincia con Luchino che se ne va per l’Est Europa per poi arrivare in Svezia dove, come un Boncompagni qualsiasi, scarta minorenni non all’altezza di quel Bello faticosamente perseguito e quindi ingaggia il quindicenne Björn Andrésen. Il prediletto. Il prescelto. Il ragazzo più bello del mondo, come l’aveva definito il maestro e come sarebbe stato salutato da lì in poi in mezzo mondo.
Sarebbe un crimine svelare quel (poco) che accadde al biondino dopo la prima del film a Cannes, cinquant’anni fa esatti. Si può dire che c’entrano pure Lady Oscar, e quello che adesso chiameremmo K-pop (però giappo) e, oggi, una vita piuttosto grama, con pochissimo cinema (una piccola parte nel recente Midsommar) e una routine quotidiana da legge Bacchelli.
L’equilibrio di questo film era fragilissimo, rischiosissimo. C’è dentro il tema della Bellezza, appunto, ma anche il corpo dei bambini, l’exploitation, alcuni urlerebbero: la pedofilia! Invece c’è tutto e, per fortuna, non c’è niente. Abituati a un tempo in cui di ogni polemichetta del giorno si fa un hashtag, un’occasione di activism, un TedTalk da cameretta, questa è una storia che ha più a che fare con il cinema e le sue grandi illusioni che con “la Conversazione”, come si chiamano oggi le chiacchiere social.
Björn Andrésen non vuole essere né una vittima né un martire, e forse neanche il simbolo che – per alcuni, per qualche tempo – è stato. È ancora un bel signore un po’ fuori dal mondo, o probabilmente dentro non c’è stato mai. Si vede che non ha mai creduto a questa leggenda del ragazzo più bello del mondo, che ha solo interpretato il personaggio che gli è stato assegnato, e incredibilmente senza la mitomania di noi (ben più brutti) che stiamo lì ore a selezionare i selfie. Non s’è salvato lui – ma chi può dirlo: i due registi non danno giudizi, né chiedono al pubblico di farlo – e non ci salveremo noi. Björn ricorda anzi con un certo affetto il momento irripetibile di quelle scene girate sulla spiaggia del Des Bains, in un Lido di madeleine e di spettri. E forse nemmeno lo sa, di essere stato il volto-capolavoro di un opera-capolavoro. Era solo un film, sembra dire alle nostre fotine di Instagram. A noi troppo belli solo presso noi stessi.