«Se non credi alla famiglia, a cosa puoi credere?». Il film Dreamin’ Wild – storia vera (fuori concorso) dei fratelli Emerson, due musicisti ragazzini il cui album ha successo trent’anni dopo l’uscita – è molto modesto, ma la domanda, almeno quella, è pertinente. E, con varie modalità e sfumature, potrebbe essere facilmente adattata all’intera 79esima Mostra del cinema di Venezia. Forse è una conseguenza della costrizione vissuta in tempi di pandemia, della quarantena e del conseguente, obbligato, confronto con sé e con i propri cari: tanti film “chiusi”, con poco cielo e spalle al muro quest’anno, durante una kermesse che i panni sporchi li ha spesso (per non dire sempre) lavati in casa. In famiglia.
Esempi? A non finire: e non sempre edificanti. La madre di Marilyn che cerca di affogarla quando la diva era ancora solo una bimba (Blonde di Andrew Dominik); quella di Saint Omer (attenti alla debuttante Alice Diop, che al cinema dà del tu) che invece riesce nel suo terribile intento; il padre nel film (molto figo) di Guadagnino che abbandona la figlia cannibale (Bones and All); il prof di The Whale di Aronofsky, vero e proprio animale morente, che cerca invece di recuperare prima di andarsene il rapporto con la figlia adolescente; la giovanissima protagonista dell’ingiustamente sottovalutato film di Crialese (L’immensità) che fatica a fare capire a due genitori sull’orlo di una crisi di nervi che si sente più Andrea che Adriana; la Monica di Pallaoro che invece la transizione l’ha già fatta, costretta dagli eventi a confrontarsi con la madre che la cacciò di casa; il “The Son” di Zeller, che precipita nel vuoto senza che i genitori separati riescano (o possano) davvero aiutarlo.
Conflitti, contrasti, cicatrici non rimarginate, ferite incancrenite nel tempo e nelle incomprensioni, distanze emotive difficilmente colmabili. A ogni latitudine, in tutte le circostanze. Illusorie famiglie di fatto come nei Figli degli altri di Rebecca Zlotowski, dove la protagonista si affeziona alla bimba del suo compagno e poi si trova costretta a fare a meno dell’una e dell’altro; coppie spezzate dal dolore come in Love Life di Kōji Fukada; figlie chiamate a confrontarsi con lo “spettro” della madre (la doppia Tilda Swinton) in The Eternal Daughter di Joanna Hogg. Ma anche genitori che rovinano i figli (Il signore delle formiche di Gianni Amelio), fratelli che si riscoprono tali (Les miens di Roschdy Zem), mogli che non si rassegnano all’addio del marito (Un couple di Frederick Wiseman). E se avesse ragione il Baumbach (che cita DeLillo) di White Noise, uno che di queste cose se ne intende? «La famiglia è la culla della disinformazione mondiale». Amen.
Altro che cinema: forse sarebbe stato più utile un analista. Ancorata a un’istituzione che non ha ancora deciso se demolire o meno, il concorso veneziano ha trovato poi nella diversità e nell’emarginazione (oltre che nel disagio psichico e fisico) l’altro grande tema dell’edizione 2022: accusati come Braibanti (primo e unico condannato per plagio in Italia, al centro del film di Amelio), traumatizzati come la diva Monroe, costretti ad abitare un corpo sbagliato come i protagonisti dell’Immensità e di The Whale, ma anche ciechi, sordomuti oppure in coma, i protagonisti di Venezia 79 cercano asilo già sapendo che probabilmente per loro non c’è e non ci sarà un posto nel mondo.
È il cinema dello scontro (più che dell’incontro) che alza la voce in Laguna: sono le banlieue in fiamme di Athena di Romain Gavras (poderoso quell’inizio), l’Argentina, 1985 di Santiago Mitre che manda alla sbarra il suo passato, gli ex amici, protagonisti di un’escalation clamorosa di vendette (anche autolesioniste) in uno dei film più arguti e intelligenti visti qui, The Banshees of Inisherin (Gli spiriti dell’isola) di Martin McDonagh, apologo pacifista in un Paese da un secolo in guerra con sé stesso. Più tensioni però, a dire il vero, che emozioni: alcuni, o anche diversi, buoni film (tra i più apprezzati Tár di Todd Field e i citati Diop, Guadagnino e McDonagh), ma anche l’impressione (abbastanza comune nei festival, a dire la verità) che alla Mostra sia mancato il colpo del ko, l’asso che spariglia le carte in tavola. Sensazioni, più che opinioni. Ma per essere compresi – la parabola dei fratelli Emerson lo dimostra – a volte occorre tempo. E nemmeno poco.