C’è un’immagine, anche fuori dalla sala, che vale più delle altre: è il silenzio – e il tempo – prima del primo bacio. Quella sospensione, quell’istante interrotto dalla lunghezza indefinibile, quell’attesa sul crinale del desiderio. Partiamo da qui: dalla fine. O, meglio, dall’inizio di qualsiasi storia. Da uno degli ultimi fotogrammi di Venezia: il bacio tra Jessica Chastain e Peter Sarsgaard in Memory di Michel Franco, ma soprattutto da quello che (non) avviene nei secondi, densi e molli, che lo precedono. Anime ferite, smarrite, spezzate: eppure, di nuovo pronte a quel passo, rigenerate laggiù, sul ciglio del precipizio.
Nella Mostra dei mostri c’è spazio ancora per l’amore: quello per l’altro, quello per il cinema. È un sentimento persistente, quello che ci affida l’ottantesima edizione del festival della Laguna: è l’amore passato ma sempre presente di Hors-saison di Stéphane Brizé, quello che attraversa addirittura i secoli ma non sopravvive al futuro de La bête di Bertrand Bonello, quello che sfida leggi della fisica e universi paralleli nel contorsionista La teoria del tutto, l’altro che si inventa una famiglia in Bastarden, con Mads Mikkelsen.
E anche là dove non c’è amore, c’è uno spiraglio di fratellanza, solidarietà, aiuto. Sono acque agitate, quelle della realtà: lo sanno Io capitano di Matteo Garrone, Comandante di Edoardo De Angelis e Green Border di Agnieszka Holland. Film a tema migranti (anche se quello di De Angelis solo in via metaforica), chi con politica chi con poesia: ma presenti, urgenti. È la realtà, bellezza: anche quando trasfigurata ad arte. Come il Pinochet vampiro di El Conde di Pablo Larraín, non-morto che gronda ancora sangue in Cile, ma pure la “civiltà” del consumo che rischia di mettere a rischio l’equilibrio tra uomo e natura in Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi.
Una Mostra in bianco e nero e a colori che accarezza (sì, si può fare!) le sue creature: magari flirtando con Frankenstein come fa Yorgos Lanthimos in Poor Things, geniale percorso d’emancipazione femminile, oppure attraverso le trasformazioni e trasfigurazioni dei suoi protagonisti (DogMan di Luc Besson, Woman of… di Małgorzata Szumowska e Michał Englert), mostri solo per un mondo che non li capisce. Quelli veri stanno altrove, nei lussuosi appartamenti parigini dell’ultimo Woody Allen, Coup de chance, nei party di Enea di Pietro Castellitto e in quelli, deformati dalla chirurgia plastica, di The Palace di Roman Polański, tra i sicari del fincheriano The Killer, così come nel futuro: perché domani (o già adesso?) la vera Bestia sarà l’Intelligenza Artificiale.
Tra biopic più o meno dichiarati (da Maestro di Bradley Cooper a Priscilla di Sofia Coppola passando per Origin di Ava DuVernay) ai romanzi di formazione (tanti e di tutte le specie: Garrone ma anche Costanzo con Finalmente l’alba, Holly di Fien Troch e Adagio di Stefano Sollima), Venezia 80 non ha mai smesso di cercare una propria identità, offrendo sempre libertà di scelta anche a chi non ne aveva nessuna.
Una Mostra che è andata in crescendo, ha posto questioni più che dare risposte, ha trovato tesori dove forse meno, alla vigilia, se lo aspettava. Ma il bello di un tale evento è proprio questo: cancellare i pregiudizi, vedere crollare le certezze, sapersi ancora sorprendere. Anche se le edizioni sono 80 e gli anni pure di più. Ma è un po’ come in Making of di Cédric Kahn: lo spettacolo non so, ma il cinema deve andare avanti.