“Vorrei andare a vedere il castello di Cenerentola”, sospira Anora-che-si-fa-chiamare-Ani. Stripper pendolare sulla tratta New Jersey-Manhattan, brillantini sui capelli e nails stuccatissime, si fa infilare i dollari nel tanga dai clienti del night club dove lavora, money money money, always sunny, in the rich man’s world. E a un certo punto il riccone arriva davvero, caruccio, drogatello e simpatico, e per giunta figlio di un oligarca russo. Brillocco, nozze a Las Vegas, allora è possibile. Ma qui non è Hollywood, direbbe qualcuno. Non è Cenerentola, e nemmeno Pretty Woman. Questo è un film di Sean Baker, ed è più bello così.
“Cosa significa il tuo nome?”, chiede il giovane riccone russo ad Anora-che-si-fa-chiamare-Ani, si direbbe immigrata di terza generazione, la lingua di lui la capisce per via di una nonna russa, ma è una nota biografica su cui preferisce sorvolare. “In America non ci interessano queste cose”, risponde la ragazza, che appunto ha cancellato tutto, importa solo il qui e l’ora – e la promessa di una gita a Disney World perché i sogni son desideri di felicità, e la felicità finalmente è arrivata.
Questo è un film di Sean Baker, dicevo, e nei film di Sean Baker si ride moltissimo, anche se raccontano sempre di un’America marginale, mortificata, massacrata. Si ride moltissimo pure in Anora (nelle sale dal 7 novembre), che è il film dell’anno perché sì, e perché nessuno mette in scena le relazioni come lui, e perché nessuno gira certe sequenze come lui, come in un matrimonio (im)possibile tra John Cassavetes e John Landis, ma con una cifra che ormai è totalmente riconoscibile come sua; e soprattutto perché nessuno come lui riesce a usare la commedia per fare il più lucido dei discorsi sull’America tradita dal capitalismo, dalla politica, da sé stessa.
Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes per volere della giuria presieduta da Greta Gerwig, Anora è la consacrazione mainstream di uno dei più ortodossi fra gli autori americani, ma sempre spiritosamente, senza mai comizi militanti, solo con i film, le storie, i personaggi che – anche qui senza proclami – hanno fotografato o anticipato la fluidità, i neo-femminismi, la crisi tragicomica del maschio. Baker è un innovatore (il magnifico Tangerine girato con l’iPhone), uno scrittore e un regista libero, capace di creare nuove regole ogni volta fottendosene, delle regole. Diciamo sempre che il cinema è morto, poi accadono queste cose – questi film, questi autori – e ci passa la nostalgia.
Ultimamente litigo con tutti quelli che, di fronte all’ultimo film del grande autore di turno, dicono “non mi è piaciuto” come a certificare che quell’autore è finito per sempre (ogni riferimento a Parthenope, che è bellissimo e sta facendo pure parecchi soldi, non è casuale: ma era già tutto previsto); perché anche a noi importa solo il qui e l’ora, e se non mi piace il film X del regista X, allora cancellerò quel regista per sempre. Con Sean Baker, lo constatavo con un’amica l’altro giorno, è impossibile per il semplice fatto che Sean Baker ha solo fatto bei film, non ha sbagliato mai. Citavo Tangerine, e poi il capolavoro The Florida Project (in Italia stupidamente titolato Un sogno chiamato Florida), e il sottovalutatissimo Red Rocket, e ancora prima, non arrivati in sala da noi, Four Letter Words, Take Out, Prince of Broadway, Starlet. Margini, mortificazioni, massacri, ma sempre con lo sguardo del narratore complice, tenero, preciso, gioioso.
Se ne fotte delle regole, Sean Baker, e lo si vede sempre anche dalla scelta degli attori. Anora è il film con il miglior cast di quest’anno o forse da molti anni a questa parte, e sono attori che non avete mai sentito nominare. Li dico tutti o quasi, perché meriterebbero tutti i premi del mondo ciascuno: la radiosa protagonista Mikey Madison, e Mark Eydelshteyn, Yura Borisov (era nello Scompartimento n. 6), Karren Karagulian, Vache Tovmasyan, Aleksei Serebryakov, Darya Ekamasova. La prima è una instant star, sarà candidata all’Oscar e forse lo vincerà, e avrà il suo Cinderella moment perché a volte gli happy ending esistono anche là dove non sembra possibile.
Quanto al finale di Anora, chissà se è un happy ending, forse non è nemmeno importante. Di certo è il miglior finale dell’anno o forse da molti anni a questa parte, struggente, attento, ispirato, doloroso, importante, dalla parte delle ragazze ma per davvero, e sempre gioioso o almeno ci si prova, come nella vita, come in un film di Sean Baker.