I documentari non li sa fare più nessuno. O meglio, li fanno in troppi. Col risultato che, oramai, documentario spesso vuole dire: macchina da presa fissa davanti a gente seduta a parlare e immagini d’archivio tra un intervistato e l’altro. Anche l’esordiente cinquantacinquenne Alessandro Rossellini – figlio di Renzo, a sua volta figlio di Roberto – ha fatto un documentario, che però è probabilmente il più bello dell’anno (è dal 20 novembre in digitale on demand). È un documentario sulla sua famiglia, e difatti s’intitola The Rossellinis. Così è troppo facile, direte voi: pure io, se fossi nipote di quello che ha fatto Roma città aperta e Viaggio in Italia, farei un documentario bellissimo. E invece no: chiunque di noi, se fosse nipote di quello che ha fatto Roma città aperta e Viaggio in Italia, non farebbe proprio niente. Che è anche un po’ il punto di tutta questa storia: ma ci arriveremo.
The Rossellinis è il film sulla famiglia più bello che vedrete quest’anno, o forse che vedrete in assoluto. Non è la solita tolstojana questione delle famiglie felici e infelici. È ovvio, essere un Rossellini non assomiglia a nient’altro; ma insieme – si capisce dai primissimi fotogrammi – assomiglia anche a noi che di cognome facciamo, dico a caso, Carzaniga. Altrimenti il film non comincerebbe al cimitero, con buona parte dei Rossellini ancora viventi che sono lì a studiare la futura organizzazione della tomba di famiglia: le famiglie vogliono stare insieme da morte, anche se si detestano da vive.
In realtà i Rossellini non si detestano, anzi. Si amano di un amore pieno e disordinato, e però quasi non si conoscono tra loro. È questo che fa il neoregista nel più spericolatamente psicanalitico degli esperimenti forse mai visti al cinema. Va a beccare i suoi parenti sparsi per il mondo e cerca di capire ciò che li accomuna. E di dimostrare che (o se) esiste la rossellinite, come la chiama lui, quella tara genetica che è insieme benedizione e dannazione. Se la tua stirpe è la stessa di un genio, probabilmente tu genio non lo diventerai mai: è questo, in sintesi, il quadro clinico. Ma gli altri si aspettano che tu lo diventi: e questo, invece, è il malanno cronico.
«Mica potevo fare il cameriere: ero un Rossellini!», dice l’ancor bellissimo Robertino detto Robin, settantenne ex playboy finito a vivere sullo scoglio svedese dove fuggì mamma Ingrid Bergman dopo il divorzio da Roberto. Lo zio Robin e il nipote Alessandro sembrano due estranei: ma non è così anche per noi di fronte a un sacco di nostri parenti (che però non hanno avuto in passato una liaison con Carolina di Monaco)? In più, Alessandro è il brutto di famiglia, o almeno così si sente di essere. E sentirsi brutto in un clan dove gli zii sono figli della diva di Casablanca rende tutto, sempre psicanaliticamente parlando, ancora più difficile.
Questo è l’altro punto: dentro le famiglie, che siano felici o infelici, ci si invidia tutti. The Rossellinis è la storia di tutti noi che non possiamo vantare Ingrid Bergman tra i congiunti, ma che comunque frigniamo di fronte all’ingiusta distribuzione della bellezza, del talento, del danaro tra coloro con cui condividiamo il sangue. Perché zio Pinco ha fatto tutti quei soldi e io no? E perché al cugino Pallo vanno dietro tutte e a me non mi si fila nessuna? E perché Sempronio ha preso il bel naso diritto di nonno e io ho una nasca per cui mi perculeranno fino alla fine dei miei giorni? È lo stesso scenario che, da grandi, ci si squaderna davanti nella società tutta, tra gli amici, e i colleghi, e le persone che ci siamo scelte, e quelle che ci sono capitate in sorte. Ma è in famiglia che comincia tutto: quello è l’imprinting, e chi te lo leva più.
L’altra bellissima di famiglia, con prole altrettanto bellissima, è zia Isabella, qui nel ruolo più monumentale della sua carriera: non volto Lancôme, non musa di Lynch, ma sé stessa. Zia Isabella è la più bella e la più ricca, e pure questa è una dannazione: i parenti invidiosi te la faranno sempre pagare, letteralmente. Sospira zia Isabella nel film di fronte al nipote Alessandro (vado a memoria): «Ogni volta che tornavo a Roma, staccavo assegni da dieci o ventimila euro, perché qualcuno di voi aveva sempre bisogno di soldi». Per poi scoprire che, con quei soldi, il sedicente bisognoso Alessandro una volta ci si comprò il Rolex. Oggi la zia accoglie il nipote nella sua fattoria sopra New York e dice di esserci a suo tempo rimasta assai male, e però di aver anche ormai dimenticato. C’è più senso del perdono in lei che in tutti i Vangeli, ma pure la consapevolezza di ciò che significa essere dalla parte giusta dell’ingiusta distribuzione della bellezza, del talento, del danaro, appunto. Finisce per diventare quasi una colpa, soprattutto nei confronti degli affetti più prossimi.
Ci sono, nel film, momenti esilaranti (l’educazione sentimentale di papà Renzo con “la pizzaiola”) e momenti struggenti (l’incontro del regista con la madre, ex ballerina afroamericana, malata). Ci sono morti, figli contesi, conversioni all’Islam, shooting di Vogue, ovviamente tantissimo cinema. E c’è una figura che è la sintesi di tutto. La gemella di Isabella, già docente di letteratura a Harvard e Princeton, è la non protagonista che, controvoglia, ruba la scena. Ha lo slancio intellettuale di papà Roberto (che però resta il genio di casa) e la grazia dolente di mamma Ingrid (che però resta la star di Notorious). E sembra essersi sempre fatta da parte perché, come se non bastasse, aveva pure una sorella eterozigota icona a sua volta. È “Ingridina” Rossellini, e un nome così è insieme una benedizione e una dannazione aggravate. Se mai ci sarà un sequel di questi splendidi Rossellinis, mi auguro che a girarlo sia lei.