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‘Wolf Man’ vuole rinnovare i film sui lupi mannari, ma non si toglie né il pelo né il vizio dei cliché

Dopo aver riletto in chiave “sociale” ‘L’uomo invisibile’, Leigh Whannell passa a un altro archetipo del body horror. Ma nonostante le belle atmosfere e l’ottima prova di Christopher Abbott e Julia Garner, il risultato suona già visto

Foto: Universal Pictures

Dentro ogni uomo si nasconde una bestia che aspetta di essere liberata: questo è il concetto centrale della maggior parte dei film sui licantropi, siano essi terrificanti (L’ululato), sexy (i film di Twilight) o, occasionalmente, entrambi (il potboiler con Jack Nicholson e Michelle Pfeiffer Wolf – La belva è fuori). A volte questa febbre da luna piena è vista come una liberazione. Altre volte è un’afflizione dolorosa. Raramente è un sottotesto. E fin dai giorni di gloria dell’horror anni ’80, artisti come Rob Bottin e Rick Baker hanno trasformato le scene di trasformazione dei lupi in spettacoli di effetti speciali. Accanto ai loro cugini creature della notte, alias i vampiri, i lupi mannari sono stati una delle scommesse più sicure del genere. Cosa c’è di più terrificante che perdere il controllo del proprio corpo e della propria mente mentre gli istinti più primordiali e animaleschi prendono il sopravvento?

Wolf Man di Leigh Whannell (nelle sale italiane dal 16 gennaio, ndt) riconosce che, conflitti interiori o meno, tutti gli horror sui licantropi sono essenzialmente body horror più pelosi del solito. Questa volta, però, la metamorfosi del suo sfortunato eroe avviene a scatti, anziché in un colpo solo: il tutto per veicolare una metafora molto specifica, miei cari. Come la straordinaria versione dello stesso regista dell’Uomo invisibile (2020), questa rivisitazione della maledizione che può colpire anche gli uomini puri di cuore e che recitano le preghiere prima di andare a dormire non è un remake del film originale della Universal. A differenza del precedente, che si faceva notare per la sua riflessione politica e sociale, qui c’è ben poco di più ampio e ammiccante.

Tuttavia, un lungo preambolo fa pensare che ci si trovi di fronte a una decostruzione di come la mascolinità agisca come un demone devastatore interiore. Un ragazzo di nome Blake (Zac Chandler) viene cresciuto nei boschi dell’Oregon centrale dal padre (Sam Jaeger), un ex-Marine la cui protezione nei confronti del figlio rasenta l’abuso. A tutto ciò si aggiunge un autostoppista che si aggira per quella regione e che si dice soffra di quello che gli indigeni locali chiamano “il volto del lupo”. Si comprende dunque la preoccupazione di papà per la sicurezza del figlio.

Trent’anni dopo, l’ormai adulto Blake (Christopher Abbott) mostra alcuni degli stessi modelli paterni aggressivi nei confronti della figlia Ginger (Matilda Firth). L’amore che prova per la figlia è autentico, e si capisce che i due sono molto legati. Ma Blake ha ereditato i problemi di rabbia del genitore, che sta cercando di gestire. E questo temperamento potrebbe essere la causa degli attriti tra lui e la moglie Charlotte (Julia Garner). Il fatto che lei lavori come giornalista e lui come scrittore tra un lavoro e l’altro non rende meno tesa l’atmosfera nel loro modesto appartamento di San Francisco.

Così, quando arriva una lettera che dice che il padre di Blake, da tempo dato per disperso, è stato finalmente dichiarato deceduto, gli viene un’idea. Deve andare in Oregon e svuotare la casa di famiglia: perché Charlotte e Ginger non lo raggiungono? Potrebbero passare un po’ di tempo insieme, cosa di cui tutti loro hanno un gran bisogno. Il viaggio passa tra giochi e scherzi in famiglia, finché i tre non arrivano al vecchio terreno di Blake e lui non riesce a trovare la casa. Un inquietante cacciatore locale (Benedict Hardie) si offre di aiutarli, visto che si sta facendo buio e non dovrebbero uscire dopo il tramonto. Per farla breve, i due si imbattono in un tipo piuttosto simile a un lupo, Blake viene graffiato dagli artigli di questo predatore e la situazione si fa letteralmente… pelosa.

Il resto di Wolf Man si trasforma in un gioco di attesa: quanto tempo hanno a disposizione prima che l’uomo che ha giurato di proteggere la sua famiglia dal male si trasformi nella cosa che farà loro più male? Qualcosa di malvagio si aggira all’esterno, ma che dire della minaccia sempre crescente all’interno della casa? E cosa succede quando si è costretti a vedere una persona cara trasformarsi in qualcosa di completamente diverso? Whannell ha dichiarato di aver voluto trattare l’aspetto del lupo mannaro come un’allegoria per osservare il deterioramento che accompagna le malattie terminali e, più rapidamente di quanto si possa dire di Susan Sontag, quest’idea di malattia come metafora diventa ciò che definisce il suo ingresso nel canone del cinéma du lycanthrope. Abbott, a suo merito, interpreta la graduale involuzione in un ibrido confuso e carnivoro con più sfumature di quanto si possa pensare, facendoci capire come ogni nuovo cambiamento (sensi potenziati, crescente incapacità di parlare o capire l’inglese, perdita dei vecchi denti per una dentatura più affilata) si traduca in una perdita di umanità. Sapete che i lupi si staccano una zampa se vengono presi in trappola? Diciamo che questo tipo di autolesionismo si estende anche ai morsi della fame.

La maggior parte della fatica psicologica viene quindi scaricata su Julia Garner, che dimostra che le sue espressioni terrorizzate sono davvero di prim’ordine, e il cambio di prospettiva è un’interessante svolta rispetto alla solita spacconata del “come faccio a domare il mio predatore interno?”. Non c’è modo di domare questo mostro che ora si trova al posto di un marito e di un padre; la sua famiglia può solo stare a guardare mentre cade a pezzi e alla fine implora la sua morte. L’analogia più vicina a ciò che Whannell sta cercando di fare qui non è tanto un film sui licantropi quanto La mosca (1986) di David Cronenberg, che ha trasformato un film di Serie B degli anni ’50 in un’interpretazione cruenta (e appiccicosa) dello scempio che la malattia compie su coloro che soffrono. Il film mira al mix di body horror, pathos, tensione e tragedia di quella pietra miliare. Si nota anche quando inizia a mancare il bersaglio, in termini di mantenimento del mix in modo che non si sgonfi del tutto.

Ciò che rimane è il tipico modello di horror che a volte si affloscia sotto il peso delle sue stesse ambizioni e che, avendo esaurito il potenziale dell’idea fin dall’inizio, si limita a zoppicare fino al traguardo. Alcune vaghe riflessioni sulle responsabilità dell’essere genitore, così presenti nella prima metà del film, riemergono nel secondo atto, con Blake che si preoccupa della paura che saremo noi stessi a danneggiare i nostri figli. Ma per ogni momento intelligente (lo strisciare di un ragno diventa una sinfonia fragorosa una volta che il suo udito diventa più acuto) c’è uno spavento da salto sulla poltrona o l’ennesimo cliché di cui non si può fare a meno. Alcuni di quegli elementi da editoriale di una rivista culturale che aveva L’uomo invisibile sarebbero davvero graditi. Il finale di Wolf Man è interessante, anche se ha perso qualche pezzo lungo la strada. Si sperava solo che la sua trasformazione da film di genere a parabola crudele potesse avere più mordente.

Da Rolling Stone US

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