Comincia un po’ Nouvelle Vague, Coup de chance, cioè per strada, in mezzo ai passanti (ma nel poshissimo VIII arrondissement), con la macchina da presa dell’autore della cinematografia (così vuole lui) Vittorio Storaro che gira gira gira attorno ai volti belli di due biondini, Lou de Laâge e Niels Schneider, ex compagni di liceo francese a New York, lei ora sposata bene con un tipo (Melvil Poupaud) un po’ Tom di Succession, velenoso ma in definitiva stolto, lui invece rimasto l’aspirante scrittore che scrive i suoi romanzi solo a penna e vive nella bohème di gioventù, o nella sua illusione.
Comincia con un bout de souffle, Coup de chance, il nuovo film di Woody Allen (qui la nostra intervista) fuori concorso a Venezia 80, lui dice probabilmente l’ultimo, «perché trovare i soldi è sempre più una rogna» (parafraso da una bella intervista di Variety), e anche «perché non mi piace questa cosa che oggi i film dopo due settimane dall’uscita sono già sulle piattaforme». Noi vogliamo credere di no, promettici Woody che non sarà così, sei arrivato al Lido in formissima, e in quel tuo cassetto hai ancora mille appunti da pescare, noi lo sappiamo.
Coup de chance è un bel colpo inaspettato, dopo il testamentario (ma pieno di verve) Rifkin’s Festival. È un giallo un po’ anni ’40 dove sono tutti ricchi, belli, bevono Margaux e mangiano foie gras, vanno in vacanza in Polinesia e però, ovviamente, sotto sotto (neanche troppo) tradiscono, mentono, addirittura ammazzano. È un Match Point volutamente in minore e in commedia, con i soliti crimini e i soliti misfatti, che procede diritto come un proverbio di Rohmer, col solito messaggio che il caso e la fortuna contano molto, anzi provocano tutto, e chi prova a piegarli finisce malamente. È la storia che sappiamo già, che non ci stanchiamo di farci raccontare.
Woody Allen fa fatica a trovare i soldi per i suoi film perché il mondo è brutto e stupido (sapete a cosa mi riferisco), il coup de chance è aver incontrato i francesi che credono ancora oggi nell’illuminismo, nella borghesia e nella giustizia (non di Twitter), e un direttore come Alberto Barbera che lo invita alla Mostra. Era qui quarant’anni fa con Zelig, c’è passato altre mille volte, è stato accolto – alla proiezione stampa di ieri – da un applauso che suonava liberatorio, sul nome scritto nei titoli di testa (sempre in Windsor, ma in francese: fa un po’ effetto) e anche alla fine.
È un capolavoro, Coup de chance? No, e del resto non deve esserlo, Allen non ha mica bisogno di farne altri, ci basta sentire la stessa deliziosissima storia, e soprattutto per il tempo che serve – Woody, non andare in pensione anche solo per questo: non lasciarci nell’epoca brutta e stupida in cui i film di un’ora e mezza non li fa più nessuno.