I Von Erich sono stati la prima famiglia del wrestling professionistico della Lone Star tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, una dinastia di star di Dallas che ha affrontato tutti gli avversari nel circuito del Texas settentrionale. Prima c’era Fritz Von Erich, il patriarca che aveva iniziato la sua carriera negli anni ’50 e che alla fine era diventato presidente del World Class Championship Wrestling. Poi c’era Kevin, il secondogenito della nidiata dei Von Erich (il più grande, Jack, era morto da bambino), che veniva allenato per diventare campione del mondo dei pesi massimi. Il secondogenito era David, un burlone alto e biondo che avrebbe iniziato la sua carriera in coppia con Kevin. Il loro fratello minore, Kerry, era destinato a partecipare alle Olimpiadi di atletica leggera nel 1980, quando gli Stati Uniti decisero di boicottare i Giochi; presto dunque seguì i suoi fratelli sul ring. E c’era Mike, un musicista che non aveva programmato di entrare nell’impresa di famiglia. Finì comunque per indossare lo Speedo e scendere in campo.
Questo famoso clan di lottatori era noto per essere composto da veri esemplari del maschio americano, quel tipo di ragazzi belli e muscolosi da portare a casa per la cena della domenica. Fritz, tuttavia, aveva la reputazione di essere un duro, quando si trattava della sua famiglia. La sua mossa caratteristica era “l’artiglio di ferro” (l’iron claw del titolo originale, ndt): chiudeva la sua mano grande come una palla da baseball e la serrava sulla testa dell’avversario, stringendo con forza finché il rivale non implorava pietà o non sveniva. Forse c’è un collegamento simbolico, si potrebbe pensare, tra il modo in cui papà vinceva gli incontri e il modo in cui addestrava i suoi figli così duramente. Forse il vero “artiglio di ferro” era – pausa drammatica – la sua soffocante implacabilità nei confronti della famiglia, che ha causato l’autodistruzione di quasi tutti i ragazzi.
In altre parole, non per niente The Warrior – The Iron Claw, il dramma biografico sulla famiglia Von Erich firmato dallo sceneggiatore e regista Sean Durkin (ora nelle sale italiane, ndt), prende il titolo da quel pugno letale del patriarca e il suo significato metaforico in ciò che ha lasciato in eredità. Fin dal momento in cui si vede Fritz (interpretato dall’Holt McCallany di Mindhunter), che usa il suo colpo di grazia su un rivale indifeso nel prologo in bianco e nero e in slow motion, l’atmosfera alla Toro scatenato è già avviata. La violenza fisica sul ring non sarà nulla in confronto alla carneficina psicologica che avviene al di fuori di esso. E la mascolinità – quel certo tipo di mascolinità che, come dice un personaggio, richiede di sopportare gli alti e bassi ma “se sei un vero uomo, non cadrai mai” – sarà la vera arena in cui si svolgeranno questi combattimenti all’ultimo sangue.
“Mamma ha cercato di proteggerci con Dio. Papà ha cercato di proteggerci con il wrestling”, dice Kevin (Zac Efron), sottolineando come il senso di responsabilità di Fritz fosse in parte dovere paterno, in parte inseguimento del Sogno Americano e in parte ambizione cieca. Il padre non ha mai avuto la possibilità di vincere il titolo di campione, il che significava a volte instabilità finanziaria per la famiglia e più spesso che la sua mania di persecuzione guidava la sua intera vita. Tuttavia, se i suoi figli fossero riusciti a diventare campioni semplicemente essendo “i più duri, i più forti, i più vincenti”, allora “nulla ci avrebbe più danneggiato”. Nessuna pressione.
Visto il modo in cui Kevin si sta allenando con i pesi e tra le corde del ring, sembra che proprio lui rappresenti la migliore possibilità per i Von Erich di ottenere una cintura. La sensazione che l’allenamento dia i suoi frutti non è solo effetto della finzione cinematografica. Come avrete probabilmente visto dalle foto trapelate sul set e dal trailer del film, Efron ha messo su molta massa muscolare per interpretare il ruolo – per non parlare dell’apprendimento di tutte le mosse giuste dei Von Erich; questo è il suo passaggio al campionato dei pesi massimi della generazione – e il suo look sullo schermo è davvero scioccante. Non quanto il suo taglio di capelli alla principe Valiant, ma comunque: è una trasformazione azzardatissima, che finisce per essere più di una trovata in stile Metodo. Il fisico pompato lo fa sembrare un dio. Lo sguardo smarrito e bisognoso, soprattutto quando è vicino al padre, lo fa sembrare un ragazzo spaventato che gioca a travestirsi da adulto. Incastrando la sua interpretazione tra questi due poli, Efron riesce a cogliere ciò che ha spinto Kevin: disciplina, amore e paura. È lui a reggere l’intero film.
Tuttavia, dato che la famiglia è profondamente unita, non ci si dimentica mai che The Warrior è, prima di tutto, un film corale. Harris Dickinson è David, il più ruspante tra i fratelli, e quello che il padre inizia a preferire quando Kevin vacilla. Lo stesso vale per il Kerry di Jeremy Allen White, il tarchiato aspirante campione olimpico che viene reclutato sul ring e che finisce per fare meglio di entrambi i fratelli. (The Bear ha già convinto molti del fatto che White non solo è un attore straordinario, ma può fare molto con i silenzi, le pause, gli sguardi e una sorta di soave intensità. Questo film dovrebbe convincere i pochi detrattori rimasti che si tratta di un vero e proprio talento.) Il Mike di Stanley Simons non desidera altro che far parte di quella banda, ma gli viene presto ricordato che essere un Von Erich significa fare quello che ti viene detto, punto e basta. Lily James è Pam Adkisson, colei che offre a Kevin la sua mano e un senso di salvezza. La Doris Von Erich di Maura Tierney ci offre un esempio lampante di come anche un’amorevole figura materna possa diventare un danno collaterale in una dinamica familiare disfunzionale.
Se conoscete la storia dei Von Erich, e come la ricerca della gloria da parte del padre abbia influenzato ciascuno di questi giovani uomini e le donne che li amavano, allora sapete che la tragedia ha perseguitato questi fratelli per decenni. Sean Durkin, già autore di La fuga di Martha e The Nest – L’inganno, non lesina sul pathos, né sulla sensazione che l’ossessione di Kevin per la “maledizione” della famiglia possa avere un qualche merito metafisico. In alcuni momenti The Warrior si avvicina al classico film sportivo intriso di kitsch (e il regista non ha nemmeno incluso il più giovane dei Von Erich, Chris, la cui storia non ha avuto un lieto fine; il fatto che sia completamente missing in action è, francamente, un po’ strano). Ci sono anche momenti in cui le interazioni e gli scontri, che dovrebbero essere drammatici, si afflosciano o cadono nel vuoto, e una strana tangente che coinvolge l’aldilà e che si rivela quasi commovente. È un film disordinato su vite disordinate, a volte in modi che si vorrebbe non fossero tali.
Ma The Warrior è anche una storia di redenzione che non riguarda tanto l’abbattimento degli avversari quanto la rottura dei corsi e ricorsi della Storia, con e senza la maiuscola. Questo è in parte il motivo per cui l’interpretazione di Zac Efron è quella che rimane più impressa, dal momento che gran parte del film è incentrato su un ragazzino profondamente ferito che cerca di uscire dall’ombra ineluttabile del padre per andare verso la luce del sole. L’idea che la pace e il sempre inafferrabile amore paterno fossero sempre a un passo dal raggiungibile era un’idea che alimentava ogni momento della vita di Kevin. Alla fine ha dovuto alzare bandiera bianca, per liberarsi dalla morsa generazionale della famiglia. I Von Erich restano a buon diritto la royal family del wrestling. Come si evince dal film, l’unico modo in cui Kevin avrebbe potuto uscirne vincitore era allontanarsi il più possibile dal ring.