Vent’anni fa, una mattina di inizio marzo venni convocato da Fabiola Banzi, che allora non conoscevo, nel suo ufficio di direttrice del cast. Mi spiegò che doveva dirmi una cosa molto importante e che dovevo correre lì. Succedeva appunto vent’anni fa, quando di anni ne avevo venti pure io e avevo appena finito di girare Tanino, il mio primo film. Ero arrivato al cinema completamente per caso, non avevo nessuno studio alle spalle, nessuna preparazione e nessuna idea di come funzionasse quel mondo nel quale ero appena entrato dalla porta principale, cosa della quale tra l’altro non avevo nemmeno piena consapevolezza. Con la moto, sul Muro Torto, mi domandavo perciò se una convocazione come quella appena ricevuta da una perfetta sconosciuta fosse una prassi normale nel mondo del cinema. Fabiola mi accolse sorridendo e mi fece mettere seduto. «Sei stato scelto per fare un film molto importante. Diretto da una persona molto importante. Ma non posso dirti chi è. Posso dirti che si tratta di un tuo conterraneo, un cantautore».
È necessaria a questo punto una precisazione: io sono del 1978 e sono nato e cresciuto a Palermo. Avevo vent’anni e facevo la vita del ventenne fuorisede. Coltivavo i miei miti come solo i ragazzi sanno fare. Da quando vivevo lontano da Palermo avevo sviluppato un campanilismo allegro, e leggevo, ascoltavo, guardavo con ossessiva attenzione tutto ciò che dalla Sicilia si levava per il mondo.
«Si tratta di Franco Battiato». Risposi. Non era una domanda. Lo sapevo, era ovvio. Mentre lo dicevo avevo già gli occhi lucidi. Franco Battiato era per me qualcosa di molto simile a una divinità. Fabiola non riuscì a mentire e confermò la mia intuizione. «È qui?» chiesi aspettandomi chessò, di vederlo sbucare da dietro la tenda come a una festa a sorpresa. Non era lì. Lo incontrai in una seconda occasione qualche giorno più tardi, per l’esattezza il 18 marzo del 2002, all’hotel de Roussie in piazza del Popolo a Roma. Non ero mai entrato in un hotel del genere, posteggiai la moto e coi jeans stracciati entrai in quella specie di museo a cinque stelle. Mi fecero salire dopo qualche occhiataccia: ultimo piano, Suite.
Non ricordo chi mi aprì la porta, per la mia memoria sono già seduto in salotto, intorno a me ci sono Simona Benzakein, la produttrice del film che non so perché mi parla in inglese facendomi balbettare una risposta nello stesso idioma come in preda a un sogno lisergico, c’è anche Franz Cattini, il manager del maestro, poi c’è un signore anziano, che parla quasi solo in siciliano, dicendo delle cose bellissime con delle parole bellissime e con una voce così profonda che sembra venire direttamente dalla Magna Grecia, è Manlio Sgalambro, non lo avevo riconosciuto. E poi c’è Franco che mi parla entusiasta e felice, allegro e gioviale, spiritoso e sempre alla ricerca della battuta, leggero, soprattuto leggero come è sempre stato. Ma io tutto questo me lo immagino. Non ho memoria di una sola parola di quell’incontro. Continuo a ricordare questa specie di sogno nel quale sono in una specie di Olimpo a colloquio in più lingue con delle divinità nella suite romana di un hotel di lusso. Una cosa però la ricordo: «ci vediamo la settimana prossima a Capannelle, per il concerto», mi fa Franco prima di uscire.
«Certo, ho i biglietti da mesi», mi sembrava una risposta ovvia. Avevo visto decine di concerti di Franco e decine di altri ne avrei visti ancora. «Ha i biglietti da mesi!» mi pare urlò Franco ridendo. Ma forse appunto, questo me lo sto immaginando io.
Arrivai in moto, in ritardo, a concerto iniziato. Non avevo idea di come raggiungere il backstage. Dovetti superare un muro di cinquemila persone per arrivare sotto palco. Non lo so come ho fatto a convincere i buttafuori che ero invitato là dietro. Non posso escludere di avere pianto. Ma qualcuno dovette credermi, perché giusto il tempo che finisse il concerto ero nel backstage. Mi guardavano tutti. «È identico, è perfetto, ma dove lo ha trovato, sembra la cover di Fisiognomica». Non capivo un cazzo. Enrico Ghezzi mi filmava muto con una telecamerina mentre tutti mi guardavano come se fossi nudo. Non capivo un cazzo. E continuai a non capire un cazzo a lungo. «Ci vediamo per le letture!», mi urlò Franco prima di entrare in macchina andando via per primo da quella specie di festa. Non capivo un cazzo. Così non pensai alla lettura del copione, ma pensai si riferisse a letture chessò di Gurdjeff, qualche testo sufista, un po’ di filosofia. Così mi presentai a Cinecittà con un milione di dubbi e un milione di domande da fare a Franco che finalmente non avrebbe avuto migliaia di persone intorno. Così mi trovai a quella lettura copione, interrotta da così tante celebrità, una volta dall’arrivo di Morgan, un’altra volta addirittura da Gianni Morandi che passò a salutare, se fosse atterrato Babbo Natale con la sua slitta nel piazzale di fronte a Teatro Cinque, a quel punto lo avrei ritenuto ovvio. Conobbi il resto del cast: Ninni, Nicole, Carmelo, Donatella, Lucia, Morgan e Franco che rideva e scherzava come un ragazzino sconvolgendo l’idea che mi ero fatto di lui.
Perché Franco era fatto così: la sua profonda leggerezza avviluppava tutto quello che faceva e tutte le persone che aveva intorno. Lo avevo sempre immaginato come una specie di santone, serio e poetico. Lo era senz’altro. Ma prima di tutto Franco ti metteva a tuo agio, ti faceva ridere, raccontava aneddoti e storielle a non finire. Lo avrebbe fatto pure durante le riprese, proprio interrompendole, dicendo cose del tipo: «Fermi tutti che vi devo raccontare una barzelletta» e così la troupe si fermava, interrompeva la frenesia frettolosa tipica dei lavoratori del cinema e svelava elettricisti fermi con gli stativi in mano, operatori per un attimo lontani dalla macchina, l’aiuto che pur se fremeva per la perdita di tempo lo nascondeva molto bene, tutti fermi per questi due-tre minuti e poi tutti a ridere insieme a Franco che amava ridere anche delle barzellette che raccontava lui stesso. Avevo vent’anni era tutto bellissimo, mi stava accadendo qualcosa di magico.
Prima a Milano, dove quasi non ero mai stato e dove fui praticamente adottato da Morgan che di giorno era con me sul set e di notte era con me ovunque, fino alle ore piccole. Di Milano ricordo in particolare una scena del film. Un gruppo di musicofili è in un locale ad ascoltare un concerto e a farne una critica. Il parterre è composto da Stefano Senardi, discografico di Franco, suo grande amico e da quel giorno e per sempre anche mio grande amico, Morgan che discetta di John Cage, Saro Cosentino che gli dà contro, io in un angolo che ascolto in silenzio e un critico appoggiato nell’ombra su un tavolino che ci legge la sua recensione, interpretato da Francesco De Gregori. Mancava solo la solita slitta con le renne.
E poi a Catania, nella città di Franco, a girare il suo film, mentre l’Etna eruttava. Le prime mascherine ffp2 che ho visto in vita mia erano su quel set. La troupe le indossava per non respirare la cenere del vulcano che aleggiava ovunque e che si posava a terra come neve nera. La fotografia stupenda di quel film, diretta da Marco Pontecorvo, credo abbia goduto di quella polvere magica che rendeva l’aria e la luce eterea e onirica. Quanta magia se ripenso a Franco. Che fortuna, che privilegio.
È un film balletto, amava dire Franco, forse solo ora capisco cosa volesse dire. Non c’era bisogno che interpretassi, che capissi fino in fondo quello che faceva il mio personaggio: Ettore Corvaja, un alter ego di Franco («però non è un film sulla mia vita»). È un film in cui la narrazione è portata avanti come in una coreografia, un balletto, fatto di parole e musica, ma anche di silenzio e di parole rovesciate e incomprensibili, un film che vuole dare spazio all’anima di chi lo guarda. Forse, oppure forse ho capito male. O forse Franco voleva sempre lasciare spazio e tempo al suo interlocutore e alle sue incomprensioni, era un maestro che ascoltava anche i miei silenzi, la mia distanza da quello che raccontavamo.
Feci quel film con l’incoscienza dei vent’anni, lo feci senza mai veramente capirlo fino in fondo. E con Franco che in alcun modo cercava di spiegarmelo. Anni dopo, più di dieci, l’ho chiamato per chiedergli un’intervista per il mio documentario La linea della palma. Era appena stato nominato assessore, non aveva rilasciato interviste a nessuno, al telefono mi disse «ma certo, disgraziato!», mi ricordo pure dov’ero: in mezzo al traffico delle terme di Caracalla. Accolse a casa sua a Milo me e la mia piccola troupe con i soliti sorrisi, e la solita allegria, facendo ridere più volte il mio socio che stava alla macchina da presa. L’unica condizione fu di andarlo a trovare in un orario tra le 15 e le 17, perché «tu lo sai disgraziato, che all’imbrunire io mi ritiro». Riguardando quelle immagini, credo si veda l’amore e il timore riverenziale che ho sempre avuto nei suoi confronti. A fine riprese, dopo aver ascoltato le sue risposte, come al solito magiche e spiritose, gli dissi che negli anni avevo cercato di approfondire, che avevo letto, frequentato seminari di yoga, provato a meditare.
«Hai visto? Meglio tardi che mai. Hai capito che non c’è altra soluzione». Non so se ho ancora capito cosa volesse dirmi con quelle parole. Ma non c’è fretta, lo capirò, non c’è altra soluzione.