Era già successo con Lo chiamavano Jeeg Robot: Gabriele Mainetti aveva risvegliato il cinema italiano. Solo che quello era un film piccolo, indie – l’origin story di un supereroe stropicciato radicata nella romanità di periferia – diventato instant cult e creatore di un immaginario. È accaduto di nuovo con l’attesissimo, complicatissimo, coraggiosissimo Freaks Out: i superlativi assoluti sono d’obbligo, questa volta la rivoluzione è anche nelle dimensioni. Freaks Out (giustamente in concorso, Bong ringrazia) è la via italiana al kolossal, una prima volta, qualcosa di mai visto sui nostri grandi schermi. È un film “grande”, in tutti i sensi: nell’ambizione, nel valore produttivo (quasi cinque anni di lavorazione totali e un budget monstre), nella durata (141 minuti), nel cuore. Che è enorme.
«L’originalità sta nell’identità dei nostri personaggi, che sono figli della nostra italianità, dei nostri maestri che li hanno sempre raccontati con amore, mettendo in scena anche con i loro difetti», dice Mainetti.
La stupefacente scena d’apertura (gli effetti visivi sono incredibili) ci porta dentro lo show del circo Mezza Piotta, gestito da Israel (Giorgio Tirabassi) starring i quattro splendidi fenomeni da baraccone del titolo: Matilde, la ragazza elettrica (Aurora Giovinazzo); Fulvio l’uomo lupo (Claudio Santamaria); Cencio, il ragazzo che controlla gli insetti (Pietro Castellitto); Mario, l’uomo calamita (Giancarlo Martini). E nello stesso tempo quella sequenza ci catapulta nella Roma occupata dai nazisti e distrutta dai bombardamenti.
Ovviamente dentro c’è Tarantino, «che ha reinventato la storia con Bastardi senza gloria e ha la capacità di creare un evento e renderlo meravigliosamente unico e spettacolare«, l’amore per i freak che da Diane Arbus arriva dritto a Tim Burton, il mondo Marvel, ma più quello di Logan «che in fondo infatti è un western». E, «soprattutto, Spielberg e Sergio Leone, per me è più interessante il recupero del nostro cinema», ancora Mainetti. Freaks Out pare un po’ una versione neorealista del Mago di Oz: «Dopo il successo di Jeeg eravamo in crisi», ricorda lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, sodale di scrittura di Mainetti: «Non sapevamo che fare, ci siamo trovati nell’ufficio di Gabriele, avevamo di fronte 5 o 6 spunti e tra questi ce n’era uno che recitava: “Il Mago di Oz più Rossellini e Vittorio De Sica. E da lì siamo partiti».
Quando i fantastici quattro si ritrovano senza una guida, sono incapaci di immaginarsi nella realtà senza lo scudo del circo. E invece, in questa novella Roma città aperta, Matilde/Dorothy e i suoi compagni di sventura sono costretti a tirare fuori ciò che li rende diversi (e speciali) per aiutare la persona a cui devono tutto. «Israel simboleggia il salvare se stessi e salvare gli altri, perché senza gli altri non siamo niente», aggiunge Mainetti. C’è una battaglia tra i nazisti e una versione cinecomic dei nostri partigiani degna del miglior cinema action e di guerra: «Questi film hanno queste difficoltà tecniche enormi, anche gli attori sono stati provati fisicamente. Per ricaricare ogni bomba servivano 7 minuti, tra un ciak e l’altro ci volevano dai 40 minuti a un’ora di tempo. Abbiamo dovuto mettere in campo più macchine da presa».
E dopo lo Zingaro di Luca Marinelli, ecco un altro cattivo da antologia in linea con la poetica mainettiana: Franz, il pianista con dodici dita convinto di essere “la Cassandra del Terzo Reich”: «Franz Rogowski ha creato un villain meraviglioso e diverso da quelli che siamo abituati a vedere. I miei film forse durano un po’ anche perché ci prendiamo lo spazio per raccontare in modo tradizionale gli antagonisti, e ci servono attori molto bravi e capaci».
Come del resto tutti gli interpreti del cast, dove brilla l’irresistibile Cencio albino di Pietro Castellitto: «La sceneggiatura crea le fondamenta di un grande racconto, ma ognuno contribuisce nella creazione. E Pietro è una sceneggiatura nella sceneggiatura», dice il regista. «Se hai trovato il personaggio, sei libero e puoi fare quello che vuoi».
Il percorso di Freaks Out è stato lungo e accidentato: il set risale al 2018, ci sono voluti quasi due anni di post-produzione e il Covid ha ritardato l’uscita di oltre un anno: «Durante le riprese c’è stata la paura di non poter finire il film perché costava troppo, magari stavi ancora a metà e mancavano soldi. E poi stessa cosa in post-produzione: vedevi gli effetti speciali e pensavi: “Abbiamo fatto cose belle, andiamo oltre, paghiamo per questi rework, facciamo di più”. La tigna produttiva ti permette di girare un film così, altrimenti non puoi farlo». E meno male che c’è Mainetti, a farlo. A fare la rivoluzione.