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‘Gli spiriti dell’isola’ è un film immenso (anche grazie a Colin Farrell e Brendan Gleeson)

Lo sceneggiatore e regista Martin McDonagh riunisce il duo di 'In Bruges' per uno sguardo malinconico e magnifico alla fine di un'amicizia e all'inizio di una guerra. E firma un'opera semplicemente perfetta

Foto: Jonathan Hession/Searchlight Pictures

“È semplice: non mi piaci più”.

Se la paragoniamo a frasi che hanno scatenato guerre e causato spargimenti di sangue, questa è piuttosto banale. Non è così assertiva come “Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia”, ​​né tanto ispirata come “Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade…”, e nemmeno così passivo-aggressiva come “Non esistono conflitti senza che voi stessi siate gli aggressori”. Però è sconvolgente per l’irlandese al quale è rivolta, soprattutto perché viene dalla bocca del suo migliore amico. Ogni giorno Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell) percorre la strada sterrata che costeggia il confine del suo villaggio sull’isola di Inisherin, oltre i muri di pietra e la statua della Beata Vergine, fino alla casa di Colm Doherty (Brendan Gleeson). Poi vanno al pub e, pinte in mano, sprecano il pomeriggio tra chiacchiere e canzoni. È così da quando Pádraic ne ha ricordo. Ed è così che andrà fino alla fine dei tempi.

Poi, un giorno, Pádraic lascia la casa che condivide con la sorella, Siobhan (Kerry Condon), la sua mandria di mucche, e Jenny, la sua asinella in miniatura, e va a prendere il suo compagno di bevute. Bussa ma non risponde nessuno. Scorge Colm dalla finestra, seduto da solo, che fuma. Confuso, l’uomo va al pub da solo. “Avete discusso?”, chiede il barista. “Non credo”, risponde Pádraic. Quando finalmente incontra Colm al bar, l’amico gli dice di sedersi da qualche altra parte. “Cosa sta succedendo?”, vuole sapere Pádraic. E Colm pronuncia le quattro parole che costeranno a questi due molto di più della loro amicizia.

Un po’ commedia e un po’ tragedia – che sostituisce l’arguzia e l’ironia irlandesi alle divinità e ai mostri greci – Gli spiriti dell’isola ha una vibe antica; si svolge nel 1923, non a caso quando l’Irlanda sprofonda nella guerra civile, eppure giurereste che è stato adattato da una favola scarabocchiata secoli fa. Se conoscete lo sceneggiatore e regista Martin McDonagh solo per i suoi lungometraggi come In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) o Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), potreste trovare questo film più sommesso rispetto del suo solito mix di archetipi pulp-fiction con un debole per un’irriverenza in qualche modo poetica. I fan del primo saranno entusiasti di vedere Farrell e Gleeson fare di nuovo coppia, ovviamente, e c’è abbastanza verbosità contorta per scalfire quella smania di dire parolacce a velocità supersonica. Non crederete a quanto possa essere lirico il colloquialismo “feck“, indipendentemente dal fatto che sia usato come sostantivo, verbo, aggettivo, segno di affetto o esclamazione.

Ma se avete familiarità con i primi lavori teatrali di McDonagh, riconoscerete le vere radici di questa dolente e magnifica aggiunta ai suoi racconti fatti di uomini loquaci e violenza. Dopo essersi fatto un nome con due trilogie di opere teatrali a metà degli anni ’90 e all’inizio dei 2000, l’autore irlandese (ma cresciuto a Londra) si è bloccato sull’ultimo capitolo del ciclo Isole Aran, noto come The Banshees of Inisherin. Ha mollato il lavoro e se n’è andato, eppure la musicalità di quel titolo deve essergli rimasta impressa, così come l’idea di avere qualcosa ancora in sospeso con una parte tumultuosa della storia della nazione. Da quando McDonagh ha iniziato a girare film, alcune influenze à la “Royale with Cheese” che hanno caratterizzato il suo lavoro cinematografico hanno iniziato a insinuarsi nella sua drammaturgia; la commedia del 2010 A Behanding in Spokane non potrebbe essere più tarantiniana. Questo nuovo film non è tanto un ritorno alla forma quanto un ritorno ai suoi soggetti originali e, forse, ai peccati originali: una storia ellittica, quasi folcloristica, di uomini in crisi, che ha una doppia lettura come ritratto di una nazione in tumulto esistenziale. Un titolo leggermente modificato non può nascondere il fatto che McDonagh qui rivisiti ben due passati.

Questo è un modo di guardare a Gli spiriti dell’isola; l’altro è riconoscere che, benedetto da qualche decennio in più di esperienza e carne al fuoco, McDonagh ha realizzato quello che potrebbe essere il suo lavoro più maturo, anche se in qualche modo misterioso, sull’agonia e l’estasi di andare avanti. Colm non vuole più essere amico di Pádraic, dichiaratamente stolto, perché sente che sta sprecando il poco tempo che gli resta sulla Terra ascoltando questo pastore che blatera del nulla. Essendo un abile violinista, Colm vuole comporre un nuovo capolavoro musicale, e crede che queste chiacchiere lo distraggano dalla sua missione. Quindi vuole eliminare Pádraic dalla sua vita. Nessuno – né il suo compagno confuso, né l’altrettanto irrequieta e ambiziosa Siobhan, e nemmeno lo scemo del villaggio Dominic (Barry Keoghan, che centra meravigliosamente l’anima arrapata, sfortunata e senza speranza del personaggio) – capisce la questione. Pádraic è simpatico ma noioso: è una ragione sufficiente per una rompere una bromance?

Colin Farrell in ‘Gli spiriti dell’isola’. Foto: Jonathan Hession/Searchlight Pictures

Ciò che tutti in questo villaggio pittoresco e pettegolo comprendono però sono la rabbia, il dolore e la solitudine, e questo è il vero valore del film. McDonagh non rende nessuno di questi uomini santo o peccatore: uno vuole solo creare qualcosa di bello e duraturo nel mondo, l’altro è semplicemente contento di essere gentile con tutti mentre è sulla Terra, anche se non c’è nulla di permanente. Entrambi sono imperfetti, e una volta emesso un ultimatum, entrambi sono fottuti. L’incapacità di Pádraic di lasciarsi andare e accettare un no come risposta si traduce nel continuare a tormentare il suo ex amico sul perché della sua decisione. Quindi Colm alla fine minaccia: “Mi taglierò un dito per ogni volta che mi dai fastidio”. Noterete che è decisamente un uomo di parola, e ci fermiamo qui. E mentre McDonagh è stato intenzionalmente restio sul background politico reale della sua storia – ogni tanto si sentono spari ed esplosioni dalla terraferma in lontananza – non è altrettanto timido nell’usare un senso dell’umorismo malato per sottolineare il senso di disperazione per questi inspiegabili twist nei sentimenti. A un livello più piccolo o più grande, il suggerimento è che finisce sempre con un’escalation, un’autodistruzione e nessun segno di risoluzione. Le relazioni di sangue e i legami sono diventati danni collaterali.

McDonagh vuole anche dare ai suoi attori una vetrina pazzesca, e sono le due star che si scontrano al centro degli Spiriti dell’isola che rendono il film un capolavoro su due uomini che si comportano malissimo. Non vogliamo ignorare il gran lavoro che Keoghan o Condon fanno come supporting, o la splendida fotografia di Ben Davis, o l’abilità di Carter Burwell di incanalare la musica folk locale e un senso universale di dolore nella sua colonna sonora. È solo che l’esplosione blues di Farrell e Gleeson è ciò che fonda la regia di McDonagh e ne alimenta il fuoco.

C’è un incredibile e continuo gioco di dare e avere tra questi due, e mentre diamo per scontato il carisma eccentrico di Gleeson da The General del 1998, la performance che lascia il segno è quella di Farrell (Coppa Volpi a Venezia 79). È difficile pensare a un ritratto che trovi così tante sfumature emotive e livelli di profondità nell’incomprensione; il suo Pádraic non riesce a cogliere la logica dietro la decisione del suo amico più di quanto possa controllare le sue reazioni, il suo illogico bisogno o la vergogna di aver fatto qualcosa di sbagliato non avendo sfruttato a pieno la sua vita. Capirete anche perché un amico potrebbe essere tentato di allontanarsi pure da lui, eppure non percepirete mai che Farrell provi simpatia o antipatia per quest’anima straordinariamente semplice. Non è un caso che i due uomini diano alla fine del film un senso di ambiguità riguardo a ciò che potrebbe accadere dopo i titoli di coda. Eppure non è sbagliato che Farrell abbia l’ultima parola, e che sia il tipo che ti lascia con la sensazione di aver appena assistito a ferite che potrebbero non rimarginarsi mai. Possano gli spiriti gridare sempre per questo duo. E per quanto riguarda McDonagh: bentornato.

Da Rolling Stone USA

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