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«Dire la verità fa male, ma è meno doloroso che mentire». Così parlò Dustin Hoffman, 86 (splendidi) anni oggi. Uno che – per il mestiere che si è scelto – ha sempre dovuto mentire, ma che al tempo stesso ha sempre detto la verità. Quella di una “nuova America” (e di un nuovo modo di fare cinema) che non assomigliava a nessun’altra cosa vista prima. Dagli inizi con Mike Nichols alle ultime piccole ma indimenticabili partecipazioni, ecco il suo best of.
God bless you please, Mrs. Robinson. E Dio benedica pure il giovane Dustin, che s’innamora imprudentemente della magnifica Anne Bancroft. Secondo film per l’attore, e secondo film per Mike Nichols: insieme, sfidano il comune senso del pudore. Più che un film sulle cougar, questa è difatti l’educazione sessuale dei “giovani” States pre-contestazione. Ed è subito Storia. Prima nomination agli Oscar per il protagonista compresa.
Ragazzi di vita e New Hollywood: una combo esplosiva. Nelle mani di John Schlesinger, il ritratto di questi belli di giorno (Jon Voight) e perdigiorno (lo stesso Hoffman, alias Rico lo “Sozzo”) è un pugno allo stomaco e insieme un’opera struggente come poche altre di quel periodo. Finale indimenticabile (ma nessuno spoiler per quelli della Generazione Z che ancora non l’hanno visto) e seconda candidatura agli Academy tra i “lead”.
L’apoteosi (allegorica) della violenza secondo Sam Peckinpah. E uno dei tour de force recitativi più impressionanti messi in atto da Hoffman, da mite matematico di provincia a macchina di rabbiosa ferocia. Un’opera a suo tempo criticatissima (ma poi ampiamente rivalutata anche dai benpensanti), e un’altra tappa nella filmografia del “new actor” del cinema USA, che anche grazie a lui ormai non è più lo stesso.
Il protagonista, cioè la “farfalla” del titolo, è Steve McQueen. Ma Dustin è la sua degna spalla, nel ruolo del compagno di cella Louis Dega, irresistibile falsario professionista. Dopo tanti titoli “d’auteur”, il nostro si conferma anche una certezza dell’intrattenimento puro, ma sempre confezionato magistralmente. Del recente remake con Charlie Hunnam e Rami Malek non s’è accorto nessuno: chissà perché.
Uno dei film “giornalistici” migliori di sempre, se non il migliore. E una delle “buddy couple” più indimenticabili degli anni ’70. Dustin Hoffman e Robert Redford sono rispettivamente Carl Bernstein e Bob Woodward, i reporter del Washington Post che incastrarono Nixon ai tempi del Watergate. All’inizio Redford voleva Pacino accanto a sé: fortuna ci ha ripensato.
Il “divorce movie” più celebre di tutti i tempi (almeno fino a Storia di un matrimonio di Noah Baumbach). E – finalmente – il titolo che fa vincere a Hoffman il suo primo Oscar come miglior attor protagonista (e alla splendida ex moglie Meryl Streep quello da supporting). Scene da un (fu) matrimonio: una lezione di recitazione che tutti gli aspiranti attori dovrebbero studiare a memoria.
Oggi si offenderebbero in massa. All’epoca, la parabola dell’attore in cerca di scritture che “diventa” donna per ottenere una parte è – grazie a Hoffman e a Pollack – una farsa spassosa e insieme commovente. E Dustin alias Dorothy Michaels è subito un’icona queer “a sua insaputa”. Altra nomination all’Oscar, ma la statuetta per il film la vinse la non protagonista Jessica Lange.
Gli anni ’80 sono quelli delle dramedy perfette. E, giustamente, si chiudono con quella che vede protagonisti un uomo affetto da autismo (lo stesso Hoffman) e il fratello yuppie (Tom Cruise) costretto ad accompagnarlo in un imprevisto on the road. Con la partecipazione della nostra Valeria Golino. Invece di gigioneggiare, Dustin affronta la malattia “in sottrazione”: e conquista il secondo Academy Award.
“Solo” un film per ragazzi? Tutt’altro. La rilettura by Spielberg delle avventure di Peter Pan è un tuffo nei ricordi dei grandi (rappresentati da un sol uomo, e che uomo: Robin Williams). Merito anche della gigantesca performance di Hoffman nei panni di un villain a cui si finisce per volere bene. Uno dei più grandi successi commerciali del nostro, ormai idolo transgenerazionale.
L’ultimo personaggio indimenticabile è gentilmente offerto da Baumbach. Che sembra scrivere proprio su Dustin il capofamiglia del clan del titolo, un intellettuale ebreo loquacissimo e intrattabile, alle prese con figli (Adam Sandler e Ben Stiller) che non vogliono diventare grandi. Fino a un finale strappalacrime e strappacuore. Avrebbe meritato una nomination (l’ottava, ad essere precisi): peccato.
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