«Alleluia! Finalmente Pinocchio ha visto la luce!». Sono queste le prime parole di Guillermo del Toro, felice di aver realizzato, dopo 15 anni, il progetto della vita, il desiderio di gioventù divenuto possibile sopratutto grazie a Netflix, che ha offerto soldi e libertà artistica assoluta al regista di Guadalajara. E lui, in cambio, ci ha dato la sua versione di Pinocchio (dal 4 dicembre in cinema selezionati e dal 9 dicembre su Netflix), contraddistinta da tutti gli elementi dark ed esoterici che caratterizzano la sua opera (dal Labirinto del fauno a La forma dell’acqua). Se prima della visione c’erastata qualche apprensione, dopo la proieaione paure e dubbi vengono spazzati via dallo stile epico, dalla sensibilità e tendenza al macabro di Guillermo del Toro, che non solo si adattano perfettamente all’animazione, ma con sorpresa introducono l’arte dello stop-motion al burattino del nostro Collodi, grazie a Mark Gustafson, già guru di Fantastic Mr. Fox by Wes Anderson.
«Volevo fare un film adatto a ogni tipo di pubblico, che fosse un capolavoro artigianale, sofisticato dal punto di vista della tecnica, perché credo proprio che l’animazione sia arrivata a un punto cruciale, voglio spingerla a diventare una forma d’arte riconosciuta come il cinema. L’animazione è l’arte che salverà il cinema».
Oltre alla tecnica inedita di realizzazione per Pinocchio – «abbiamo usato tre squadre internazionali di burattinai: team inglese Mackinnon & Saunders; team di Shadow Machine a Portland e, per ultimo, il team Guadalajara» – che raggiunge vette di creatività inedite, è la peculiarità della licenza narrativa che Guillermo si è concesso rispetto al libro di Collodi (pubblicato per la prima volta nel 1881) a sorprendere positivamente. Anche se i più nostalgici sentiranno la mancanza del Gatto e della Volpe; e della Fata Turchina, che lascia il posto alla Morte. E invece della balena troverete il Cane Mostro Marino, tutti in quello stile gotico tanto caro al regista messicano.
«Mentre il classico Pinocchio era una storia di obbedienza, il mio è basato sul concetto di disubbidienza. E sceglie come teatro narrativo il periodo italiano del fascismo perché, oltre a essere un’epoca scura e foriera di tragedie ideale, è ideale per raccontare la storia di un burattino che diventa uomo proprio in un momento in cui al governo c’è un regime che vuole rendere burattini tutti gli uomini», dice Guillermo.
Pinocchio è stato uno dei primi film visti da del Toro quand’era bambino, e ci confessa che le due favole fondamentali dello sviluppo dalla sua infanzia-ad-adolescenza sono state proprio Pinocchio e Frankenstein, con paralleli fra vita e morte, fra casa e cimitero, luogo preferito dalla nonna per trascorrere la pausa pranzo insieme a lui.
«Il mio Pinocchio è sì una riflessione sulla vita, ma sopratutto sulla morte, sulla finitezza delle cose e delle persone. Il suo messaggio è chiaro e celebra i bambini, gli adolescenti, che saranno coloro che vi sorprenderanno oltre ogni aspettativa. Diamo loro tempo per sbagliare, perché impariamo solo sbagliando, senza commettere errori non scopriremo mai veramente noi stessi», proprio come ci suggerisce il vecchio Grillo Parlante (in lingua originale “doppiato” da un ottimo Ewan McGregor), che vede in lui un promemoria celebrativo e contagioso di ciò che significa vivere e, più importante, del perché fare la cosa giusta a volte comporta andare controcorrente.
Duro, schietto, detto fra i denti, così come nella nostra conversazione non sono mancate allusioni socio politiche e referenze geo-cinematografiche, proprio per illustrare la situazione attuale di tantissimi governi e pensieri politici, che prediligono infrastrutture nazionaliste invece che realtà, verità e bene dell’umanità. Temi ribaditi durante il suo discorso, proprio mentre viene insignito del Premio alla carriera dei Critics’ Choice Awards, in cui si rivolge sopratutto a minoranze e artisti in generale.