«I am a passenger, and I ride, and I ride, I ride through the city’s backsides, I see the stars come out of the sky»: la prima scena di Dexter: New Blood si apre così, con Iggy Pop e il nostro serial killer del cuore (un Michael C. Hall che s’ostina a non invecchiare mai) di-Carhartt-vestito che, abbandonata l’assolata Miami, rincorre cervi bianchi in una foresta innevata. Dexter Morgan è tornato, ma non è più Dexter Morgan: ora si chiama James “Jimmy” Lindsay, e s’è ricostruito una vita all’estremo opposto dello spettro climatico americano, a Iron Lake, una cittadina a nord dello stato di New York dove tutti conoscono il suo (falso) nome, e dove lui conosce tutti. Esce con il capo della polizia locale, Angela Bishop (Julia Jones), lavora al Fred’s Fish and Game come commesso, chiacchiera amabilmente con il fantasma della sorella morta, Deb (Jennifer Carpenter), ed è riuscito a tenere il suo passeggero oscuro a digiuno di sangue per tanto, troppo tempo.
A distanza di otto anni da uno dei finali più odiati e discussi della storia delle serie tv, Michael C. Hall s’è riunito con Clyde Phillips, lo showrunner delle prime quattro stagioni di Dexter, per riprendere le fila di un discorso che, secondo i fan più accaniti, non era stato chiuso degnamente. Al grido di «Dateci la conclusione che ci meritiamo!», i due si sono messi al lavoro e hanno sviluppato quello che è uno dei titoli più attesi della stagione autunnale: ha debuttato su Showtime il 7 novembre e arriva dal 10 su Sky Atlantic. Poteva essere un banale revival – che poi, “banale”: non ci mancano forse i vari Dexter Morgan, Tony Soprano, Don Draper e Walter White? – ma oltre alla furia omicida c’è di più, come ad esempio il figlio Harrison (Jack Alcott), ora adolescente, che irrompe all’improvviso nella rodata routine di Jimmy/Dexter.
Abbiamo incontrato Michael C. Hall per farci raccontare questo nuovo Dexter, che – spoiler! – è ancora un mostro, sì, ma «un mostro in evoluzione». Un mostro, tra l’altro, che non smette di essere pure terribilmente divertente.
Prima di assegnarmi questa intervista, da Rolling Stone m’hanno chiesto se fossi una “dexteriana”, come se Dexter fosse una specie di religione – e ai tempi lo era a tutti gli effetti. Dieci anni fa lo scenario televisivo era totalmente diverso, voi siete stati tra i precursori di un settore che poi è esploso: hai avvertito un cambiamento nel modo di approcciare una serie tv, intendo a livello di scrittura, regia e interpretazione?
Abbiamo girato la prima stagione sedici anni fa, e stavamo letteralmente esplorando nuovi territori: quei territori, quelle strade che abbiamo aperto, ora sono state in un certo senso “asfaltate”, ci si è costruito sopra un mondo, un linguaggio che prima non esisteva. Quindi non potevamo ritornare alla vecchia serie, perché ciò che un tempo era stato innovativo e rivoluzionario oggi non sarebbe stato così entusiasmante: avevamo bisogno di sfidare noi stessi facendo qualcosa di nuovo. In fondo, il nostro obiettivo era raccontare una storia che onorasse il personaggio e la serie, evitando la trappola dell’effetto-nostalgia. Sarebbe stato fin troppo semplice riaccendere l’interruttore del vecchio Dexter: volevamo calarlo in una situazione diversa, sia da un punto di vista fisico – da qui il cambio di location – che emozionale, spirituale, psicologico. E ci siamo riusciti. Il nuovo Dexter si regge sulle spalle del vecchio.
Un po’ come stare sulle spalle dei giganti.
In realtà, forse, Dexter ora guarda in basso e realizza di reggersi sulle proprie: il vecchio Dexter è dovuto morire affinché questa nuova persona e questa nuova vita emergessero, ma le cose, va da sé, sono molto più complicate di come sembrano. Non si può fuggire facilmente dal proprio passato.
Per me la conclusione dell’ottava stagione ha avuto completamente senso, penso che fosse l’unico modo per “chiudere” le cose lasciando però un finale semi-aperto. Molti fan però si sono risentiti, perché alcune domande erano rimaste senza risposta ed esigevano dei chiarimenti: quanto questo bisogno ha guidato te e Clyde Phillips quando avete iniziato a parlare di una nuova stagione?
Mi fa piacere sapere che la pensi così: so che il finale della serie ha lasciato scontente molte persone, ma dal punto di vista del personaggio e del suo storytelling era del tutto plausibile che Dexter a un certo punto si fosse auto-imposto un esilio. È una conclusione indubbiamente triste e dolorosa, ma pure legittima, considerato che la sua vita era andata del tutto fuori controllo. Quel senso di “domande lasciate senza risposta” e di generale insoddisfazione rappresenta una grossa fetta di ciò che ci ha spinti a ritornare: noi stessi abbiamo avvertito l’inappagamento derivante da un finale così aperto, e abbiamo voluto provare a capire cosa fosse accaduto a Dexter nel frattempo. È stato necessario prendersi del tempo per diverse ragioni, anche pratiche: in primo luogo, per permettere a Harrison di diventare un giovane adulto, poi per consentire a Dexter di avere una relazione più ricca, coinvolgente e complicata con questo figlio che non conosce più e che – ormai alto come lui – ricompare inaspettatamente nella sua vita.
Dai primi due episodi ho avuto la netta sensazione che New Blood non sia semplicemente la nona stagione di Dexter, o almeno: considerarla la nona stagione di Dexter suonerebbe riduttivo.
Bene! Questa è a tutti gli effetti una serie “diversa” che non nega affatto le proprie origini, ma vive di vita propria, anche in virtù del tempo che è trascorso: Dexter è stato otto anni in astinenza, non ha ucciso, non è la persona che abbiamo lasciato così come non è la persona che abbiamo incontrato quando tutto ha avuto inizio. È qualcuno che – attraverso la solitudine e l’isolamento forzato – ha cercato di assumersi la responsabilità dei danni collaterali e della sofferenza che la sua auto-indulgenza e la sua natura hanno causato. Credo che ciò l’abbia reso più umano di quanto lo sia mai stato: è come se avesse dovuto scontare una pena e fare ammenda. Il risvolto positivo di questa penitenza è che ora riesce ad andare d’accordo – chiaramente, parliamo di una relazione immaginaria e perciò parecchio bizzarra – con la sorella morta. Poi ovvio, quando inizia a uccidere di nuovo (cosa che accade, nel secondo episodio), il rapporto s’incrina, ma lo scenario di fronte a cui siamo è completamente cambiato.
A un certo punto, Jim/Dexter dice «Sono ancora un mostro, ma un mostro in evoluzione»: come pensi che si sia evoluto? Dal mio punto di vista, è ancora più solo perché ora deve nascondere due segreti: il suo passeggero oscuro e il fatto stesso di essere Dexter Morgan.
Esatto, e credo che in quel momento, quando interrompe la sua prolungata astinenza e guarda caso non preleva alcun trofeo dalla vittima, stia provando a dare un senso a quanto è accaduto. Non aveva pianificato nessun omicidio, si è ritrovato a commetterne uno all’improvviso, e ha bisogno di convincersi di avere una sorta di “relazione in evoluzione” con il sé stesso serial killer, altrimenti tutto sarebbe perduto: si sta reinventando in tempo reale.
Ho rivisto alcuni vecchi episodi per rinfrescarmi la memoria, e mi sono sorpresa a pensare «Accidenti, era così divertente!». Questa era la forza della serie e del personaggio: nonostante la sua oscurità, Dexter è profondamente divertente, strambo, e pure un po’ buffo.
Anch’io sono sempre stato convinto che, sotto questo enorme ombrello di oscurità, la serie fosse parecchio divertente, e che gran parte dello humour derivasse dal voice-over che dà voce ai pensieri di Dexter, non udibili da nessuno oltre a lui. Il Dexter che ritroviamo è più scaltro nelle relazioni umane rispetto al passato, ma conserva ancora i suoi punti deboli, certe goffaggini e la sua tipica ingenuità nel rapportarsi con le persone “normali”, il che lascia spazio alla leggerezza e all’ironia a cui eravamo abituati.
Quello che ho amato – e amo – di Dexter è che è un personaggio che ti costringe a fare i conti con le tue stesse contraddizioni: non è “buono”, ma nemmeno “cattivo”; a volte fai il tifo per lui e a volte contro di lui. In un certo senso mi ricorda il Don Draper di Mad Men: è stata la sua ambiguità a renderlo così indimenticabile?
È proprio questa la chiave del suo fascino, ma c’è di più: le cose che secondo Dexter fanno di lui un mostro sono le stesse cose che lo rendono un personaggio in cui identificarsi. Sono le sue contraddizioni, la sua oscurità, la responsabilità che tale oscurità porta con sé. Se le persone non avessero condiviso e non fossero scese a patti con il rapporto che le lega al loro personale passeggero oscuro, il personaggio non avrebbe avuto la presa che ha dimostrato di avere, e che ancora ha.
Prima di salutarci, chiedo a Michael C. Hall come ci si senta a essere tornati, e lui sfodera uno dei suoi proverbiali sorrisi: «È bello, e soprattutto è gratificante tornare e affrontare le questioni che c’erano e che abbiamo lasciato irrisolte alla fine dell’ottava stagione». Se avevate bisogno di un buon motivo per sopportare l’autunno, be’, eccovelo servito.