Alan Cumming non ama palare del passato. «Non penso mai a quel che è stato», dice l’attore, cantante, romanziere e attivista su Zoom, mentre si prepara a partire per l’imminente tour di Uncut, il suo nuovo spettacolo di cabaret decisamente autobiografico (sì, il titolo è una battuta sulla circoncisione). «Cerco sempre di non crogiolarmi nelle cose che ho fatto».
Questo atteggiamento è ciò che ha permesso a questo poliedrico artista 59enne di reinventarsi più volte: prima come caratterista, dando il volto a una sfilza di cattivi e a personaggi di contorno (ma sempre capaci di rubare la scena) in titoli come GoldenEye, Eyes Wide Shut e I Flintstones in Viva Rock Vegas (in cui interpretava sia il piccolo alieno verde Gazoo sia la rockstar Mick Jagged: «Feci un piccolo omaggio a Ginger Spice indossando una tuta pelosa coi colori della bandiera inglese», dice ridendo, mostrandomi una foto sul suo telefono). Dopo essere diventato famoso grazie al ruolo di Emcee in Cabaret, per il quale ha vinto un Tony, ha continuato a essere scritturato in ruoli diventati di culto (Josie and the Pussycats, Burlesque), in film di grande successo (Spy Kids, X-Men 2) e in serie amatissime (The Good Wife, The Good Fight).
Nel corso della sua eclettica e pluridecennale carriera, Cumming afferma di non aver mai pensato alle aspettative del pubblico o dell’industria nei suoi confronti. «Non ascolto mai i consigli», dice. «Voglio dire, se li chiedessi, li ascolterei, ma poi ti ritrovi con gente che spara parole a casa. Per questo non l’ho mai fatto».
Dopo il successo a sorpresa della serie Traitors, Cumming dice di aver imparato a evitare «di fare quella che sembra essere la cosa giusta da fare, o la cosa più logica, o di accettare l’offerta teoricamente migliore. [Ora] penso solo: cosa voglio fare?». Rolling Stone ha incontrato Cumming per parlare dei suoi ruoli iconici del passato, delle sue canzoni preferite (spoiler: sono tutte tristi) e della sua amicizia con Monica Lewinsky.
Sembra che tu lavori in continuazione. Cosa fai per rilassarti?
Proprio questo fine settimana sono stato nella mia casa sulle Catskills. La adoro. Ho lavorato un po’, ma ho anche passeggiato nei boschi, mi sono rilassato, ho cucinato. Mi piace vedere i miei amici e ospitarli, e non necessariamente fare vita mondana. Mi piace uscire, bere e divertirmi, ma è anche bello farlo in un ambiente in cui non si è osservati. Non è che voglio farmi di eroina o cose del genere, mi basta avere una casa abbastanza grande da permettere ai tuoi amici di venire a trascorrere del tempo insieme. È una delle cose migliori dell’avere successo: puoi crearti il tuo spazio, se vuoi.
Quali sono invece le cose peggiori?
La mancanza di anonimato e l’enorme livello di autoconsapevolezza. Prima dovevo uscire per comprare una cosa e un uomo che passava di lì ha avuto un sussulto e mi ha detto: “Tu sei famoso. Posso stringerti la mano?”. Devi sempre fare un respiro prima di aprire la porta di casa e pensare: “Ok, ora esco nel mondo”. Ed è faticoso, nei giorni in cui non te la senti. Di solito le persone sono molto gentili, mi fanno sentire molto amato. Ma è così tutti i giorni, e può diventare stancante. Per questo mi piace avere il mio rifugio, il mio spazio, dove posso invitare o meno gli amici, oppure andare da solo o con mio marito. Questo è l’aspetto più negativo del successo: è una cosa costante da cui non si può tornare indietro. Quando avevo quasi 40 anni – quindi, ormai, molto tempo fa – ero al Sundance e ho avuto un po’ di paura. Il Sundance è così: le persone ti afferrano, letteralmente. Avevo bevuto, stavo piangendo, e ricordo che Grant (Shaffer, suo marito, ndt) mi disse: “È perché stai per compiere 40 anni?”. E io risposi: “No, è che non voglio più essere famoso”. E poi ho pensato che, anche se avessi smesso di lavorare in quel momento, quella cosa sarebbe andata comunque avanti per anni. E probabilmente sarebbe diventata ancora più fastidiosa. Quindi tanto vale godersela. È come la vita, credo. A meno che non ci si uccida, ovviamente.
Qual è il ruolo per il quale vieni maggiormente riconosciuto?
Spy Kids di sicuro, perché probabilmente in tanti l’hanno visto quando erano piccoli. Mi piace molto che le persone vengano da me per dirmi che faccio parte della loro infanzia. È una cosa bellissima. Una volta, quando qualcuno si avvicinava a me, prima che parlasse cercavo di scannerizzarlo come in una specie di film di spionaggio: “Una donna ben vestita sulla trentina: probabilmente sarà fan The Good Wife“; oppure: “Il tipo secchione con la barba e la maglietta bucata: probabilmente X-Men“. Anche con il pubblico di Broadway, in un certo senso, si può capire in anticipo. Ma ora è più difficile, perché sono in giro da così tanto tempo. C’è gente che mi ferma per dirmi: “Adoro il tuo sapone”.
Sapevo che avevi fatto un profumo per il corpo, ma non del sapone.
È stato molto tempo fa. Ma tutti ancora ne parlano, perché è stata una specie di pazzie. Era una sorta di progetto che prendeva in giro le celebrità, mi ha molto divertente. Ho fatto questo sapone che si chiamava “Cumming in a Bar“.
Al liceo ascoltavo la tua versione di I Don’t Care Much, da Cabaret, e mi veniva da piangere. Qual è la canzone che ti fa piangere ogni volta che la senti?
Ce ne sono tante. Una è sicuramente To Make You Feel My Love, la cover di Adele della canzone di Bob Dylan. Mi commuove in parte perché mio fratello mi ha detto che era la canzone che ascoltava con la sua ex moglie quando stavano per separarsi, e poi l’hanno fatto, quindi c’è questo elemento personale in più. Un’altra è And So It Goes di Billy Joel, che cantavo spesso: ed era davvero difficile da cantare. Ho un intero album intitolato Alan Cumming Sings Sappy Songs, le canzoni tristi e sdolcinate sono il mio campo d’azione.
Cosa ti attira di questi brani?
Il fatto che si possano, diciamo così, recitare. Posso cantare solo canzoni che posso interpretare da attore. Tu scherzavi su I Don’t Care Much, ma è la storia di una persona che dice qualcosa su qualcun altro, e in modo piuttosto intenso. Si potrebbe fare quella canzone in molti modi diversi, ma io l’ho fatta pensando a una persona che si trova in una situazione incasinatissima, e perde quasi la testa, e allora dice: “Basta, cazzo, ho chiuso. Non mi interessa più”. Mi piacciono le canzoni che riesco a vivere davvero. In parte è a causa del mio complesso di inferiorità nei confronti del canto. Non si viene a vedermi in concerto per la mia voce, ma per vedermi recitare le canzoni. E non mi interessa nemmeno cantare belle canzoni. Mi interessano le canzoni con le palle. Me l’ha detto anche Liza Minnelli: “Non devi aver paura di dire alla gente: ‘Venite a vedermi in concerto’. Devi solo pensare che la canzone è un’opera teatrale e che tu sei un personaggio di quell’opera”.
Nel tuo ultimo spettacolo, scherzi a proposito del name-dropping (il fare il nome di gente famosa quando si parla, ndt), e hai appena citato Liza…
Fare name-dropping è visto come una cosa negativa, come un modo per mettersi in mostra. Non è così. Sto solo raccontando una storia, e così posso creare una scena migliore. Capisci cosa voglio dire? Ma ricordo che Jeff Goldblum stava girando una cosa con un mio amico e io andai a trovarli sul set. Avevo uno di quei cappelli russi, e lui mi fa: “Mi piace molto il tuo cappello”. E io rispondo: “Cavolo, sai chi me l’ha regalato? Faye Dunaway”. E lui: “Sai chi mi ha detto di non fare mai name-dropping? Bobby De Niro” (ride).
Mi ha sorpreso leggere che tu e Monica Lewinsky siete molto amici. Come vi siete conosciute e cosa vi ha legato?
Ero andato a Parigi per scrivere delle sfilate di haute couture per la rivista Marie Claire. Quando è uscito il pezzo, hanno dato una festa per me: erano i tempi in cui una rivista dava una festa per un articolo. Monica fu invitata perché avevano fatto qualcosa su di lei nel numero precedente, o qualcosa del genere. Ci sedemmo accanto a cena e da allora siamo rimasti amici. A dirti la verità, la vedrò anche stasera. Da quella prima sera mi sono sempre sentito molto protettivo nei suoi confronti. È davvero una brava persona, e sono molto felice che stia vivendo questo momento da “fenice che risorge dalle ceneri”, non solo grazie al suo lavoro come produttrice, ma anche attraverso tutto quello che fa nel mondo dell’attivismo e della lotta al bullismo. Il mondo ha cambiato idea su di lei, rispetto a quello che pensava vent’anni fa, e oggi l’attenzione si è spostata sugli uomini che hanno abusato del loro potere. Ovviamente c’è stato il #MeToo, ma prima ancora lei ha tenuto quel discorso TED, e lo ha fatto completamente da sola. Ha dato il via al cambiamento perché era abbastanza forte per farlo. Lo ha fatto da sola. Ha dovuto allontanarsi dalla scena pubblica per molto tempo per rimettersi in piedi, perché ha subìto il maggior numero di traumi rispetto a chiunque altro io conosca. È incredibile che sia una persona così bella, equilibrata e gentile, considerando quello che ha passato.
Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto, e quale invece il peggiore?
Credo che il miglior consiglio me l’abbia dato un vecchio attore scozzese, un vero lupo di mare, nel 1985, quando ero in Scozia e avevo 20 anni. Interpretava Banquo nel Macbeth al Tron Theatre di Glasgow, e io ero Malcolm. Mi stavo arrovellando su una battuta e lui mi disse: “Quando sei in dubbio, fallo con gli occhi”. Un’altra cosa che hanno detto sempre in Scozia è: “Puoi essere grande quanto vuoi, ma devi crederci tu per primo”. E questo, secondo me, è assolutamente vero. Penso di aver fatto tesoro di questo consiglio, perché ho avuto un percorso decisamente strano. Non ho incontrato molte persone che hanno avuto il mio stesso percorso o che fanno le mie stesse cose. E poi penso che, quando le persone offrono consigli, c’è sempre un secondo fine, non sono mai del tutto sincere. Credo sia meglio trovare i consigli da soli. Quando sei giovane e appena arrivato sulla scena, le persone, soprattutto gli attori, amano dare consigli. E io non le ho mai ascoltata. Ho preso alcune decisioni sbagliate. Ma non darei mai consigli a qualcuno se non me li chiedesse.
C’è un ruolo che avresti voluto non accettare?
Ci sono un paio di cose in cui mi sono sentito un po’ forzato, o addirittura un po’ fregato. Ci sono stati film che pensavo sarebbero stati grandiosi e che invece si sono rivelati terribili. Ma non ho rimpianti. Mi piace sfidare le aspettative del pubblico, e penso che sia davvero fastidioso qualcuno mi chiede: “Perché l’hai fatto”. Ricordo che anni fa ho avuto due tour promozionali molto vicini: uno era per Titus, il film tratto dall’opera Shakespeare, e uno era quello dei Flintstones in Viva Rock Vegas. C’erano tutti gli stessi giornalisti, e sembravano scioccati. E io gli dicevo: “Fatevene una ragione, stronzi. Sono un attore. E poi, quanto pensate che mi abbiano pagato per Titus?”.
C’è un film che hai fatto o un ruolo che hai interpretato che secondo te avrebbe meritato più attenzione?
Succede spesso, soprattutto con i film queer. Non sempre riescono a entrare nel circuito mainstream. Ne ho fatto uno, Any Day Now (2012), su una coppia gay degli anni Settanta che cerca di adottare un bambino con la sindrome di Down, e ovviamente è un’impresa difficilissima. È un film davvero bello. L’hanno fatto uscire a dicembre perché pensavano di avere una chance per i premi e compagnia bella, ma si è perso ne caos delle uscite di quel periodo. Sarebbe stato meglio se più persone lo avessero visto. Per me lo scopo di fare un film è che la gente lo veda, che riceva quella storia. In quel caso, volevo raccontare la fatica che fa una coppia gay per adottare un figlio, a meno che non abbia molti soldi. Oggi non è cambiato molto, per chi cerca di adottare attraverso il sistema statale.
C’è un tipo specifico di ruolo per cui, quando ricevi un copione, dici: “Ho chiuso con questi personaggi, preferisco non farli più”?
Nel corso degli anni, mi hanno proposto molti personaggi di drag queen. E io sono una drag queen terribile. Sono gay e posso fare grandi performance, quindi la gente pensa: “È perfetto!”. Ma è troppo scontato. Non sono molto attraente vestito da donna. Perciò non ho voluto interpretare quei ruoli: non perché sono contro le drag queen, ma perché non credo di essere molto bravo.
Hai recitato in molti film diventati cult, penso ad esempio a Josie and the Pussycats e Spice Girls – Il film. All’epoca ti eri reso conto che sarebbero rimasti così impressi nella memoria?
Non credo che lo si capisca mai, mentre giri qualcosa. A volte diventano cult film che non hanno avuto molto successo quando sono usciti, ma che si sono costruiti lentamente un pubblico nel tempo. Il film delle Spice Girls è stato un grande successo perché all’epoca tutti erano pazzi di loro, e sono felice che oggi la gente lo apprezzi e veda che si tratta di un film divertente e intelligente, di quel genere di “musicarelli” sulle band molto famose che non si fanno più. Per quanto riguarda Josie and the Pussycats, quando uscì fu un vero flop. L’avevano promosso in modo totalmente sbagliato: è un film così strano, sì, ma anche intelligente e in anticipo sui tempi. Io ho collezionato una sfilza di film incompresi e poi diventati di culto. Reefer Madness è uno di questi. Quando è uscito nessuno l’ha visto, ma ora stanno riproponendo la versione teatrale a Los Angeles, e questa cosa mi piace. Mi piace essere così vecchio da vedere gente che all’epoca dell’uscita del film forse non era ancora nata farti i complimenti per il tuo lavoro. Mi piace molto l’aspetto ciclico di tutto questo. Penso che la vita sia così: sempre la stessa merda, solo con addosso costumi diversi.
Da Rolling Stone US