Guardare, guardarsi. «Mi piace lavorare con i fotografi, mi piace scoprirmi guardata diversa da come m’immagino che sono». In queste foto, Alba Rohrwacher è un cigno, un folletto, una dama, una bambina, un essere senza sesso e senza età, una donna. Mille facce che sono una sola: la sua. Guardare, guardarsi. Il cinema lo fa sempre, e stavolta traccia il ritratto di Alba forse più netto, singolare, spericolato (sulla spericolatezza ci torneremo). Mi fanno male i capelli, il 19 ottobre in concorso alla Festa del Cinema di Roma e dal 20 subito nelle sale, è uno studio su due attrici: Alba Rohrwacher e Monica Vitti. Roberta Torre prende la prima, le dà il nome di Monica, la immagina donna che smarrisce sé stessa e la fa ritrovare, in tutti i sensi, dentro i film della Vitti. L’avventura, La notte, Il deserto rosso, L’eclisse, gli Antonioni ci sono quasi tutti, ma c’è anche Polvere di stelle, le interviste tivù. Il marito (Filippo Timi) finirà per stare al gioco, e noi insieme a lui. Guardiamo Alba che guarda Monica finendo per guardare, intimamente, chi è davvero. È una vertigine, una donna che vive due volte. È il cinema.
Guardare, guardarsi. «Lo sguardo che io ho su di me, il guardarmi…». Alba esita un momento. «Sono un giudice molto severo di me stessa. Solo con il tempo, solo negli ultimi anni, ho imparato ad essere più dolce. Vedo sempre l’errore, la cosa che non va. Rispetto all’essere guardata, invece, la cosa che mi appassiona in questo mestiere è scoprire la possibilità che è altra da me, che sta nello sguardo di qualcun altro. Uno sguardo che comincia dal regista, perché è lui che ti trasporta nella sua visione, che vede il personaggio prima di te».
Roberta Torre ha visto in Alba/Monica qualcosa che forse lei non aveva immaginato mai. «Quando Roberta mi ha parlato di questo film e mi ha fatto leggere la sceneggiatura, ho pensato che la sua fosse davvero un’idea speciale. Riusciva a raccontare Monica Vitti mettendo in scena un personaggio che, attraverso una patologia mentale, trova la libertà riconoscendosi nei personaggi interpretati da Monica Vitti. È un gioco di specchi, è un modo di raccontare questa grandissima, immensa attrice senza però cercare di mutuarla. È proprio un guardare alla sua grandezza, e la sua grandezza dà vita a un personaggio che potrebbe invece appassire perché ha un disagio, una malattia. Nello stesso tempo il terzo occhio, che è lo sguardo di Roberta, ridà vita a Monica Vitti. Mi sembra che questo sia un film sulla potenza di Monica Vitti, e sulla potenza del cinema in generale di alimentare la vita. Questa donna che potrebbe avere una degenerazione si sbriciola, sì, ma luccicando. È la celebrazione dell’arte incarnata nella figura di una donna, Monica Vitti, che è simbolo, icona, guida, maestra, faro. E nel cinema tutto. È un film, questo, che crede profondamente nel cinema».
Rivedevo di recente La mamain et la putain, il capolavoro-culto di Jean Eustache tornato in sala restaurato per i cinquant’anni dall’uscita. Steso sul letto, Jean-Pierre Léaud dice alla sua amante: “I film servono a questo: impari a vivere, a rifare il letto”. La vita che il cinema crea, che produce continuamente, sta proprio in quell’apparentemente ordinario “rifare il letto”. Bisogna crederci però, come fa l’ultimo film di Alba Rohrwacher. E se ci credi, allora succede: il cinema cambia la vita, la salva. «A me è successo, succede». Con un film, un’attrice: con cosa, le chiedo. «Mi è successo per… il cinema. Perché tutto il cinema, il cinema in generale, per me è vita, e allora la può salvare, la vita». Fa una pausa. «Sì. È successo per il cinema. Anche quando rifai il letto. Jean-Pierre Léaud ha ragione».
Mi fanno male i capelli è uno studio su un’attrice, due attrici. Come quei film che andavano di moda negli anni ’60 e ’70: un regista prendeva un volto e ci costruiva attorno un mondo, una vita. Mi fanno male i capelli diventa quasi la masterclass di un’attrice, Alba Rohrwacher, che ci regala la sua lezione studiandone un’altra, Monica Vitti. «Mi sono sentita guidata, in quello smarrimento. Da una parte da Monica, perché lavorare in un dialogo immaginario con lei è stata una cosa assurda, incredibile, molto profonda. Alla fine entrava nei miei sogni. E da Roberta, che mi ha… spostata. Voleva raccontare uno spostamento mentale, e con me è riuscita a farlo. Durante quelle settimane si è creata questa assurda dimensione di spostamento nella quale mi sembrava normale dialogare con Monica Vitti dentro uno specchio, capisci? Quando vedo la scena in cui lei mi passa i cappelli dallo schermo di un televisore, a me sembra che sia veramente lei a farlo, anche se ovviamente c’era qualcuno appoggiato sotto la macchina da presa o chissà dove. Non mi ricordo davvero come l’abbiamo girata, quella scena. Avevo proprio la sensazione che fosse lei a passarmeli, o almeno, oggi, mi pare così».
Un dialogo, quello tra Alba e Monica, che diventa quasi transfert. «Ma mai imitazione. Se mai un’identificazione sghemba, goffa, maldestra. Il gioco era sul trovare un’onestà, il giusto livello di candore: ecco, questa è la parola che più associo al tipo di lavoro che abbiamo fatto con Roberta». L’altro lavoro operato da Rohrwacher sta in quello studio su un’altra attrice che, in qualche modo, può cambiare la prospettiva, la direzione del proprio percorso. «Monica Vitti ha avuto questo potere incredibile di essere trasversale, di unire l’alto e il basso, il basso e l’alto, e di dare ogni volta forza a quello che faceva. Confermava quello che sapeva fare facendo l’esatto opposto. A noi attori, anche oggi, dà l’idea che si può spaziare, andare in più direzioni, mantenendo una credibilità e un cuore. Questa è lei, la capostipite di tutti gli attori che sono stati capaci di questo: darti la fiducia che ti puoi espandere. Poi potrà succedere che non ci riesci, ma già il fatto che tu, prendendola come modello, pensi che sia possibile, ecco: tutto questo ti dà il coraggio di osare, di spostare un po’ più in là il limite, il consentito. Inoltre, guardando Monica Vitti così da vicino, ho sentito per lei una grandissima tenerezza. Guardando i lunghissimi provini che fece per Deserto rosso, per esempio. Provini di immagine, la ricerca del giusto taglio di capelli, del cappotto, i colori, come lei entra ed esce dall’inquadratura. Roberta mi ha consegnato questo scrigno. Ecco, proprio lì – non in un’intervista, non in un film – c’era una piccola stanza segreta a cui noi abbiamo avuto accesso. E mi sono immaginata che quello spazio fosse prossimo al segreto di Monica Vitti. Ci sono dei momenti, in quel materiale, che mi hanno commossa».
Parlava del limite, Alba. Il limite come condizione che l’attore è sempre destinato a incontrare. «Credo di essere piena di limiti, ma un limite che forse non ho è la paura, rispetto al lavoro dico. Sono generalmente spericolata, nel senso che oso. Il film di Brizé (Hors-saison, in concorso all’ultima Mostra di Venezia, nda) è stata una scelta spericolata, ad esempio. Come è stato spericolato lo stesso regista che mi ha cercata e ha insistito perché io ci fossi. Ed è stato un azzardo anche Vergine giurata di Laura Bispuri (la storia di una giovane donna albanese che segue le regole del Kanun, il diritto civile vigente in certe comunità di montagna secondo cui, in mancanza di figli maschi, le donne possono autoproclamarsi uomini, nda)». Azzardi però vinti, esempi di spericolatezza – e ci metto anche l’ultimo ritratto della doppia Monica – che hanno avuto il meritato ritorno. «Spericolatezza intesa come curiosità. Il ritorno che dici non so bene che significhi. È sempre creare. Se la scelta “spericolata” che si è fatta, anche se poi il lavoro non viene come si immaginava, è stata una fonte di crescita, un’esperienza di vita, degli incontri con persone che continuano ad essere con te anche finito il tempo del film, allora quello è un ritorno bellissimo, sì. Che poi quella che per me può essere una scelta spericolata per altri è forse il noiosissimo ripetersi di scelte già fatte. Ogni attore ha il suo mondo, ogni attore definisce la sua paura».
Mi pare, parlando di spericolatezza, che di recente Alba Rohrwacher stia tornando sempre più spesso a quelle corde sghembe, goffe, di cui parlava e che spesso ha visitato in passato: penso, su tutti, a Troppa grazia di Gianni Zanasi, un film che mi è – e, scopro, le è – caro. Di recente è successo nella Chimera di sua sorella Alice Rohrwacher, che le ha disegnato addosso un personaggio da villain quasi da cartoon. Succede, naturalmente, con questa Monica “spostata”. «Ultimamente forse sono solo capitati più spesso. Sento di avere questa parte molto precisa in me, che però mi viene richiesta raramente. Una delle cose che ricordo del Centro Sperimentale che mi hanno entusiasmato di più è stato il lavoro che abbiamo fatto sul clown interiore che ognuno di noi ha. È arrivata Natalia Zvereva e ha portato la tradizione del lavoro della scuola russa sul corpo, sull’assurdo, sulla delicatezza del far sorridere dal niente. Ricordo che fu incredibile per me, una scoperta». Mi torna in mente che in Marcel!, opera prima di Jasmine Trinca uscita l’anno scorso, Alba è proprio un clown, un saltimbanco di strada. «Sì, lì c’è stata una grande ricerca che abbiamo fatto in quella direzione, su un personaggio tragico, e folle, e imprevedibile».
Le viene chiesto meno di esplorare quelle corde, diceva: in Italia, o succede un po’ ovunque? «Mi sembra che sia un’esplorazione che si fa poco in generale. Forse mi sbaglio, ma non mi sembra un cinema, il nostro, popolato da figure così. Una volta, se guardi anche i film più leggeri proprio di Monica Vitti, quelli con Sordi per esempio, da noi c’era una forte corrente di questo tipo di cinema. Oggi è molto difficile immaginarci storie di questo tipo, con personaggi di questo tipo». Un tempo, in Italia, li avevamo sì. «Noi avevamo tutto. Noi siamo il bacino da cui ha attinto il cinema del mondo». Ancora il cinema che salva: anche sé stesso. E poi cos’è successo? «Eh, cos’è successo? Questa domanda me la faccio in generale, rispetto a tante cose del mondo: cos’è successo?».
Guardare, guardarsi. L’attore esiste, per creazione che è come un Big Bang, prima di tutto nello sguardo del regista. Bisogna affidarsi a quello sguardo. Bisogna concedergli la fiducia, e come si fa. «È molto istintiva come sensazione. Mi ricordo, quand’ero piccola, che una zia – anzi una prozia, quindi di una certa età – entrando in un portone mi disse: “Alba, ma tu vuoi più bene al babbo o alla mamma?”. E la mia risposta rimase così impressa da venire citata spesso in famiglia. Io la guardai e le dissi: “Zia Lola, il bene non si misura. Se c’è c’è, se non c’è non c’è”. E quindi io ti rispondo come risposi alla zia Lola: la fiducia non si calcola, se c’è c’è».
Lo sguardo, negli ultimi anni soprattutto, si è allargato anche perché sono aumentate le donne registe. Per Alba accade ora con Roberta Torre, è accaduto tante volte con sua sorella Alice, e con Emma Dante, Anna Negri, Ginevra Elkann che l’ha voluta anche nel suo secondo film Te l’avevo detto, Laura Bispuri che torna a dirigerla per la quarta volta nella quarta stagione dell’Amica geniale, di cui sono appena finite le riprese. «Mi pare di sì, finalmente aggiungo, che questo cambiamento sia in atto. L’utopia per me sarebbe arrivare a non fare più nessun distinguo. Nel momento in cui si fa, e troppo spesso purtroppo è necessario, ho paura che diventi, suo malgrado, un limite. Faccio un salto in avanti e dico: vorrei, in un mondo ideale, che tu non mi facessi questa domanda e che io allora non ti dovessi rispondere, perché il confine sarà finalmente rotto». Mi chiedo, parlando di guardare e guardarsi, se mettere il suo sguardo su di sé, da regista intendo, stia nelle direzioni possibili della sua carriera. «No, no. Per ora proprio no. Io sento molto preciso dove è indirizzato il mio desiderio. E poi sono circondata da persone così brave a fare questo mestiere che penso che io non aggiungerei nient’altro».
In uno scambio di mail a margine dello shooting delle foto che vedete, Alba ha scritto queste tre parole: “Viva l’armonia”. Le sento molto vicine, le dico, sarà perché, ho scoperto, siamo nati a pochi giorni di distanza, due Pesci che per natura solo nell’armonia possono effettivamente nuotare. «Lo sai che i Pesci sono il segno più bello di tutti?». Ride. Poi fa una pausa. «Eh, sì… l’armonia. Però poi lo vedi dove va il mondo. Che dolore. Mi fa davvero male guardare a noi, esseri umani capaci di tanta brutalità. Forse anche l’armonia è proprio un’utopia. Io però penso che uno ci può provare, nel suo piccolo, a fare la differenza. A mettere la gentilezza, anche solo dove può».
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Foto: Paola Ledderucci
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Personal Stylist Alba: Umberto Granata per EP.SUITE19 PR
Total Look: Dior
Hair Stylist: Roberto D’Antonio
Make Up Artist: Nicoletta Pinna per Simone Belli Agency
Hair Sylist Assistant: Stefania Giannico
Photo Assistant: Marco Antinori, Luca Vegetti