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Alessandro Borghi, tutto per una lacrima

Con “Sulla mia pelle” ha “strappato er core” al suo pubblico, e questa è la sua gioia più grande. La storia di un attore di strada diventato un numero uno, su Netflix e al cinema

«Quando ero piccolo abitavo a viale Marconi, dove c’è ancora un palazzo con sopra una grande insegna pubblicitaria che si illumina la sera. Mia madre mi diceva: “Vai dove ti pare ma non superare il palazzo perché oltre c’è la stazione di Trastevere dove girano i matti”. Io ovviamente andavo dai matti». Alessandro Borghi è sulla strada che porta al Greenwich di Testaccio, un’ex sala parrocchiale trasformata anni fa in uno dei cinema ancora vivi del centro. Viale Marconi e la stazione di Trastevere sono a cinque minuti di cammino. Attraversi il ponte dove cinquant’anni fa, alla fine di Accattone, moriva Vittorio, il primo Barabba di borgata. Vittorio era anche il nome del suo personaggio di Non essere cattivo, che trovava invece la forza di cambiare vita e scendere dalla sua croce. La stazione di Trastevere, più o meno, non è cambiata. «Io volevo esse amico de questa gente qua, volevo capire. Andavo coi miei amici a trovare quello che stava tutto il giorno a petto nudo, beveva quaranta birre e ci raccontava perché s’era lasciato con la moglie. Rischiavo pure de prende le botte, perché a un certo punto questi si innervosivano».

Posti esauriti per vedere Sulla mia pelle. Prima della proiezione, il saluto di Alessandro. In strada strette di mano, abbracci, grazie Alessa’, e già una piccola fila che chiede una fotografia. Per ogni scatto un sorriso a 1000 denti. Scende di casa Valerio Mastandrea, che è un amico e abita davanti accanto, spunta in un angolo una vecchia conoscenza di set, un amico di quartiere. Altri abbracci. Si avvicina una coppia di ragazzi: niente foto, a loro basta una stretta di mano: «Proprio come avrei fatto io», approva Alessandro. In pochi minuti questa strada in mezzo ai palazzetti Novecento, con le luci che illuminano l’imbrunire, è un improvvisato red carpet d’asfalto. «Io il culto del cinema cel’ho prima da spettatore che da attore», dice con gli occhi che gli brillano. «Il cinema del mio quartiere si chiamava Madison e ho visto tutto lì da quando avevo 13 anni. Ci andavo il pomeriggio, e ho continuato ad andarci quando l’hanno trasformato in multisala».

Cappotto doppio petto in lana, camicia e pantalone classico in cotone tutto Gucci. Foto di Jérôme Bonnet; Fashion Editor: Francesca Piovano; Fashion Editor Assistant: Giulia Bandioli. In tutto il servizio, grooming: Maurizio Calabrò Lead Makeup Artist NARS Italia. Make up NARS and Hair assistants: Nicol Perpignani e Gian Marco Pellegrini.
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Sulla mia pelle è il film nel quale Alessandro si è caricato addosso la croce di Stefano Cucchi, un cristo di quartiere ammazzato di botte da chi lo aveva fermato con un po’ di fumo addosso e il sospetto che ne nascondesse altro. Picchiato e abbandonato in cella, poi scaricato in infermeria, lasciato infine a se stesso e alla sua agonia. Niente che giustifichi niente, e questo rende ancor più enorme l’ingiustizia. Quasi dieci anni di processi, nessun colpevole, una specie di lontana paura: «Dalla prima volta che ho visto la foto di Stefano ho pensato che lui poteva essere mio fratello minore, che ha 24 anni. Mi è scattato questo senso di protezione», ripete a chi gli chiede cosa si agita di così speciale dentro questo film. «Ho pensato anche che ci sono amici miei che fanno la stessa vita che faceva Stefano. E c’è l’abbandono. Stefano è morto convinto di essere stato abbandonato dai genitori, che invece non avevano il permesso di entrare a visitarlo. È una cosa che mi strazia ogni volta che ci penso».

Ha tatuate su un braccio le iniziali di mamma, papà e di suo fratello. Come si faceva una volta. Roba working class, la spavalda tenerezza di tanti ragazzetti romani. «Ho avuto una famiglia normale, che mi ha tirato su benissimo. Però io sono cresciuto in mezzo alla strada e ho avuto a che fare con un sacco di gente. Tossicodipendenti, piccoli criminali… errori». Non proprio un bad boy, questo no. L’Aureliano Adami di Suburra coi capelli decolorati e il ghigno che assomiglia a quello di Johnny Rotten, il Vittorio impasticcato con gli occhi fuori dalle orbite, adesso il povero Stefano Cucchi che si sente morire un po’ alla volta chiuso dentro una cella.

Trench in tessuto tecnico BOSS. Foto di Jérôme Bonnet

Nella vita di tutti i giorni è il ragazzo che parlava ai matti, frequentava palestre e scendeva ogni volta che poteva le scale del cinema di quartiere. Filosofia e codici di strada, curiosità per la gente. Fidanzata, amici, famiglia. «Sono appena uscito da un saluto all’Eurcine, dove c’erano i miei genitori, i miei nonni e i miei zii», dice ancora. L’Eurcine è un altro di quei cinema ancora in piedi, non lontano da Garbatella. «Al Madison il film non l’hanno programmato. Poi passerò a chiedere il perché».

“Questa sera con noi c’è Alessandro Cucchi… No cioè scusate… Borghi”. La presentazione di un’emozionata responsabile del Greenwich merita un sorriso. In effetti nel discorso che ripeterà per qualche giorno in diverse sale italiane, di fronte a un pubblico fatto quasi soltanto di ragazzi, Alessandro racconterà la sua emozione, che consiste esattamente nel “dare la possibilità a Cucchi di tornare a vivere per un’ora e quaranta”. Chiederà a tutti di “sentire come respira quello vicino a voi”. E piangere, arrabbiarsi, scoprire quello che ancora non si sapeva di questa storia. Ma farlo insieme, guardandosi negli occhi quando si accendono le luci. Perché così è il cinema e questo lo sappiamo tutti, sappiamo a memoria anche le parole che si usano in casi come questo, ma se le dice Alessandro Borghi è più facile crederci e sentirsi parte di qualcosa che accade.

Anche di questo parla Sulla mia pelle. Della materia di cui oggi sono fatte le storie e le emozioni che sono in grado di superare la superficie social. Di comunicazione. Di cinema. Il film è uscito contemporaneamente su Netflix e nelle sale (ma soltanto in alcune; altre, polemiche contro questa coincidenza, non l’hanno proiettato). Contemporaneamente è stato scaricato e proiettato da collettivi di mezza Italia in modalità “pirata”: folle di fronte a teloni improvvisati, 2000 all’Università di Roma, 1000 a piazza Oberdan a Milano, tra il cineforum e l’occupazione. Segue dibattito.

Camicia Gucci. Foto di Jérôme Bonnet

Nei giorni dell’uscita del film hai fatto due tweet. In uno te la prendevi col fatto che a Roma solo cinque sale hanno accettato di prendere il film in polemica contro Netflix. Nell’altro – più impegnativo secondo me – dicevi: “Se la qualità delle proiezioni clandestine è ridicola, abbiamo perso tutti”. Molti hanno storto il naso. Non c’hai capito un cazzo, ti hanno scritto.
Ma il fatto che ci siano 2000 persone che hanno voglia di riunirsi per vedere il film è una roba che mi fa venire da piangere, perché è la missione vera di questo lavoro. È meraviglioso. Io ricordo che Non essere cattivo l’abbiamo portato in giro per tutte le università e tutti i prati di questo Paese. D’altra parte se qualcuna di quelle 2000 persone paga un biglietto contribuisce al fatto che io l’anno prossimo possa tornare in una sala, magari a parlare di un altro film…

Perfetto. Ma quella di Stefano Cucchi non è una storia come le altre, di conseguenza neppure il film.
Una ragazza mi ha detto: “Quelli dei centri sociali, che seguono da tanto tempo la vicenda di Stefano, hanno il diritto di guardare questo film dove je pare a loro”. Le ho risposto: “Se la metti così, alzo le mani”. Io seguo questa vicenda da quando per la prima volta Ilaria Cucchi ha tirato fuori la foto di suo fratello, e il film l’avrei visto al cinema. Però non ho scritto: “Stronzi, non si fanno le proiezioni pirata”. Ho detto: “Ragazzi, se volete farle, fatele bene, perché l’idea di sapere che ci stanno 2000 persone a vedere un film su un lenzuolo di un metro per uno non mi piace”.

A parte il discorso sull’importanza di vedere il cinema insieme in sala, tu sei un po’ una creatura di Netflix. “Generazione Netflix” si può dire?
Io sono tre anni che collaboro con Netflix. Arriva in 190 Paesi, che vedranno la storia di Stefano. Grazie a Netflix adesso mi arrivano messaggi dall’Arabia Saudita sul film. La gente dice: “Era ovvio che un film così sarebbe andato bene”. Per niente. Era molto rischioso. Poteva essere strumentalizzato, poteva essere fatto in maniera meno intelligente. Invece in questi giorni a Torino, a Padova, a Riccione, ho trovato sempre lo stesso tipo di accoglienza: gente che si abbraccia, che si emoziona, che vuole parlare. Io dico che il nostro modo per farci sentire, per ricordare la storia di Stefano, è stato fare il film. Non andrò certo ospite di un talk show. Preferisco andare all’università e farmi una chiaccherata con 2000 ragazzi.

Anche con lo schermo su un lenzuolo di un metro per uno, ci saresti andato.
Ci sarei andato molto volentieri, lo sanno tutti. Mi avevano anche invitato, ma quella sera ero da un’altra parte a presentare il film.

Cappotto formale in velluto Gucci. Foto di Jérôme Bonnet

“Borghi, quando la facciamo una bella commedia?”, glielo domando la stessa sera, seduti al tavolino di un bar, mentre Alessandro aspetta di entrare in un altro cinema. Forse avrei dovuto fingere l’accento del produttore romano, invece ne viene fuori uno del Nord. «Me lo chiedono sempre», sorride lui. «Un paio di commedie me le hanno proposte, ma non avevo il tempo di farle. In genere la risposta che do a tutti è: “Non credo che noi italiani adesso siamo i più bravi del mondo a fare le commedie”». Risposta per niente diplomatica. Anzi piuttosto crudele nei confronti dello stato presente dei figli e dei nipoti della commedia all’italiana. Non raccoglie la provocazione: «Io faccio solo cose che mi piacciono tanto e per ora tra queste non ci sono le commedie», dice. Si lancia in un’interessante dichiarazione “emo” sulla superiorità delle lacrime al cinema rispetto alle risate: «In questi giorni mi arrivano solo messaggi di gente che scrive “Alessa’ mi hai strappato er core, piango da tre giorni”, cose così. Se immagino invece un messaggio che dice “Alessa’ me so’ ammazzato dalle risate”, mi dà una sensazione diversa, meno forte».

Ne approfitta, già che ci siamo, per smontare una delle leggi non scritte del cinema popolare, dai Cinepanettoni a oggi. «Quando sento dire: “A vede’ i film pesanti nun ce vado perché la vita è già dura quindi vado al cinema pe ride”, rispondo “Te capisco”. Io, invece, nella vita rido tanto, quindi mi piace andare al cinema a piangere. I film della mia vita non sono commedie, e mi piacerebbe lasciare la stessa traccia nella vita di qualcun altro».

Pesco al volo da qualche vecchia intervista i cult di Alessandro Borghi: Toro Scatenato «una delle cose più belle che ho mai visto». Regia di Martin Scorsese. “Martino”, come lo chiamò Valerio Mastandrea in una lettera, quando cercava i soldi per finire il film dello scorsesiano maestro Claudio Caligari. E Interstellar: «Sono un fan di Nolan, quel film mi ha devastato. Sono uscito piangendo e avrei voluto rientrare per piangere ancora». E niente commedie da qui al prossimo anno, almeno. Il suo nuovo personaggio sarà romano come tutti gli altri fatti fino a qui, ma di talmente tante generazioni fa che parlerà un latino arcaico. Remo, fratello di Romolo in Il primo re, regia di Matteo Rovere. «In Storia sono stato sempre una sega, quindi ho dovuto imparare tutto da zero. La cosa interessante è che il film si basa sulla relazione tra due fratelli uniti in tutto, che a un certo punto cominciano a pensarla diversamente sulla divinità, sull’accettazione di Dio, sulla religione. Il rapporto con Dio è ancora una delle cose più attuali del pianeta. È come se Remo fosse il primo ateo…».

Nelle intenzioni Il primo re è una roba che ai cinefili rinnova il profumo dei sandaloni – i vecchi film mitologici girati da miss e culturisti, quando Cinecittà era la Hollywood sul Tevere –, però, incrociato con i filmoni tipo Braveheart e persino The Revenant. «Per girarlo siamo stati tre mesi scalzi in mezzo al fango in una cava a Manziana», racconta Borghi. Manziana, non lontano da Roma, accanto al lago di Bracciano, agli stessi cinefili ricorderà il set naturale di tanti western e horror serie Z dell’epoca d’oro. Nonostante sia arrivato al cinema passando dalle palestre, come tanti attori di quel periodo, la mitologia del cinema romano a Borghi interessa poco. «Che ti devo dire? Io sono contemporaneo. Chiedimi se preferisco fare il remake di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, o quello di Interstellar. Io rispondo Interstellar».

Pullover di lana CALVIN KLEIN 205W39NYC. Foto di Jérôme Bonnet

Poco o niente si può dire ancora di Diavoli, la serie Sky sul mondo dell’alta finanza internazionale che vedrà Borghi nei panni di un arrogante trader, accanto al suo mentore Patrick Dempsey (Grey’s Anatomy). La cosa interessante è che la preparazione delle riprese ha trascinato Alessandro fuori dalle strade della Capitale. «Ho scoperto il fascino dell’alta finanza», scherza. «Sono andato con l’autore del libro Guido Brera a Londra per un po’ di tempo e grazie a lui ho avuto la possibilità di entrare in alcune banche d’affari, di quelle famosissime. Anche soltanto a metterci un piede dentro ti manca il fiato. È una cosa della quale tu non capisci niente: centinaia di persone che muovono capitali enormi, e si parla solo di billion, mai di million, sennò sei uno sfigato».

Nonostante fare l’attore sia stato un caso («lo sanno tutti, un agente mi ha visto per strada»), l’Actors Studio personale di Alessandro Borghi ha un nome e cognome: Claudio Caligari. «Conoscere Caligari è stato un regalo della vita. Lui mi ha insegnato a parlare di una cosa soltanto dopo averla toccata», dice. «Vedi Amore tossico: quelli che prima e dopo Claudio hanno provato a raccontare il mondo della tossicodipendenza l’hanno fatto guardandolo col cannocchiale, da casa propria. Lui è andato là, ha preso gente che aveva problemi veri. Quando a Ostia giravamo con lui Non essere cattivo, c’era gente che ancora piangeva ricordando Amore tossico, perché sentiva che gli era stata in qualche modo resa giustizia». Come si è capito, nel cinema che piace ad Alessandro quando una cosa è bella fa piangere.

«Da allora ogni volta che faccio un film è sempre lo stesso. Anche nel Più grande sogno, un film piccolo, ispirato alla vita di Mirko Frezza, che è come un fratello per me, ho vissuto per un po’ nel suo quartiere, La Rustica. Mi ricordo che ho scoperto lì la figura dello zammammero». Mai sentito, chi è? «Uno che è uscito da poco di galera o non ha il permesso di soggiorno, e va a chiedere alle famiglie se può andare a fare la spesa per loro, buttare la monnezza, accompagnare i figli a scuola, in cambio di du spicci per sopravvivere». Ogni volta che Alessandro fa un film è come se superasse di nuovo lo stesso palazzo di viale Marconi, quello col cartellone illuminato sul terrazzo, il confine dei matti, la terra della vita che non finge, forse la vita vera, chissà.

Questa intervista finisce al telefono. Ales- sandro è in macchina. Torna a Roma dalla spiaggia di Anzio, dopo aver scattato il servizio fotografico che vedete in queste pagine. Spiega: «Nell’ambiente del cinema incontri persone che si sono create dei personaggi. Vale anche per me: sono una persona abbastanza semplice, però la vita mi ha cambiato, non sarei stato così se non avessi fatto questo mestiere. Per questo sono molto affascinato dalle persone che non si nascondono, gente che fa esattamente quello che il destino ha previsto per loro, oppure che è in una situazione difficile. Io dico sempre che la vera essenza dell’essere umano esce fuori quando è in difficoltà, quando non c’ha i soldi per arrivare a fine mese, se deve mantenere un figlio e sta in carcere».

Trench in tessuto tecnico BOSS. Tshirt in cotone H&M. Pantalone in lana sunset Bottega Veneta. Stivali stringati in pelle Marni. Foto di Jérôme Bonnet

Ci parli ancora coi matti, come li chiamava tua mamma?
Sempre. C’è questo Carlo che sta sotto casa mia. Anzi lui dice di abitare nel mio palazzo, ma non è vero. E non si sa bene che tipo di storia abbia. Una leggenda del quartiere dice che lui è partito tanti anni fa per la guerra, e quando è tornato non era più lo stesso…

La guerra? Quale guerra?
Forse il servizio militare, chi lo sa. È una persona che sta lì sotto casa mia e io vedo che la gente ogni tanto ha paura di lui. Magari può sembrare uno che ti rompe le palle, e io ogni volta dico, “No, è buono, non vi fa niente”.

Ho letto che hai aperto un ristorante con altri soci, da te mi sarei aspettato una palestra, piuttosto.
Aprire una palestra è uno dei prossimi desideri: ci stiamo lavorando, prima o poi lo faccio, promesso. E nella mia seconda vita, quando mi reincarnerò, voglio essere uno sportivo professionista. Uno alla LeBron James.

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