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Anna Ferraioli Ravel, la vita è fuori

Attrice (da De Filippo a Virzì), produttrice, futura autrice, volto cardine nel coro di ‘Un altro ferragosto’. Dove interpreta “Sàbbri” Mazzalupi, personaggio lontano da lei ma che le assomiglia più di quanto si crederebbe. Il cinema, la politica, la memoria, la tenerezza. E un invito: «Uscite di casa»

Foto: Roberta Krasnig

«Dovevo parlare tipo in greco antico per far capire che nella vita non sono come Sàbbri». Ride Anna Ferraioli Ravel, raccontando questi giorni di promozione di Un altro ferragosto di Paolo Virzì, dove fa Sabrina Mazzalupi, perno attorno a cui gira tutto. Ma lei in realtà è anche come Sàbbri, ci dirà in questa chiacchierata.

Chi l’ha vista nei Fratelli De Filippo di Sergio Rubini, dov’era una coriacea Titina, probabilmente non la riconoscerà nel ruolo della (ex) piccola Mazzalupi, diventata influencer ramo tutorial beauty e promessa sposa a un bestione tatuato e fascistoide (Vinicio Marchioni) che s’approfitta di lei e dei suoi follower. Ci sarà, forse, anche un detour politico: Fratelli d’Italia (o chi per loro, visto che non è specificato: ma non serve molta fantasia) arriva a Ventotene per proporle una candidatura alla Camera. Zia Marisa (Sabrina Ferilli) prova a farle aprire gli occhi su tutta «questa pagliacciata», ma si arriverà comunque a un finale di sangue. E, forse, a una nuova consapevolezza.

Ferraioli Ravel è una delle new entry del cast, ma il personaggio non è nuovo, quindi doppio salto mortale: non solo un film veneratissimo (tranne che da Virzì stesso, come ci ha raccontato nella nostra cover story), ma anche un ruolo cruciale, all’epoca ragazzina che scopriva l’amore e la morte insieme, nella stessa estate.

Anna Ferraioli Ravel (alias Sabrina Mazzalupi) con Vinicio Marchioni (Cesare) nella scena del matrimonio. Foto: 01 Distribution

Chi è Sabrina Mazzalupi per te?
È una portatrice di grande compassione, verso sé stessa e gli altri. Di una mancanza totale di sovrastrutture e di giudizio rispetto al mondo. Ed è così fragile da essere contemporaneamente, in qualche modo, il personaggio più lucido e disincantato di tutti. Mi fa pensare a una specie di eroina da tragedia greca, una Sibilla, e infatti nel primo film c’era quella scena disperata in cui provava a suicidarsi. Quella è stata quasi una profezia che s’è autoavverata rispetto al destino di infelicità che lega tutta la sua famiglia, è un leitmotiv che si ripropone fino a qui. E poi c’è un’altra cosa.

Prego.
Non per fare le citazioni alte, ma penso che sia anche la figura ponte per comprendere il momento storico che stiamo vivendo. Si potrebbe dire, gramscianamente, che quando il vecchio è morto e il nuovo deve ancora affacciarsi vengono fuori i mostri. Anche se lei mostro alla fine non è, anzi è quella che, a modo suo, opera una riflessione sulla struttura della famiglia tradizionale, che viene totalmente smantellata. Nella scena finale, è lei ad accogliere questo nuovo tipo di famiglia, che non prevede più necessariamente due genitori ma un destino condiviso.

In effetti è anche più moderna di certi Molino, la famiglia “de sinistra” che su alcune cose invece si dimostra molto più conservatrice.
Credo che in generale tutti i personaggi femminili di questo film siano modernissimi, di base perché sono donne mai vinte. Per tirare fuori sempre Gramsci – perdonami – Sabrina sembra pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà, e questo vale un po’ per tutte le altre. Lei non si dà mai per sconfitta, nonostante sappia di non essere amata da nessuno. Ci prova sempre. Poi, è vero, drammaturgicamente è anche il personaggio che serve a rappresentare la perdita della nostra memoria storica, quando dice che il fascismo “vabbè, parliamo della preistoria”, o quando confonde il confino di Ventotene con il confine, “cioè, ce stava la dogana?”.

Ho chiesto a Virzì se, come avevo inteso io, stavolta si sentisse più Sandro Molino (Silvio Orlando) in quella sua lotta finale per un ideale di cui forse non frega più a nessuno. E lui mi ha detto che in parte sì, ma che si sente anche Sàbbri quando dice: “È tutta la vita che mi sento giudicata. Chi siamo noi, quelli di serie B? Mo’ basta!”.
Io anche mi ci ritrovo, in quello sfogo. Siamo tutti il prodotto di quello che abbiamo vissuto nelle nostre famiglie, e l’idea di sganciarci, a un certo punto, ci dà anche un profondo senso di liberazione. Che poi è la lotta individuale che tutti viviamo oggi. Se prima c’erano battaglie collettive, adesso ognuno fa per sé. E Sàbbri ci insegna che, in un mondo in cui tutti cercano il potere o si sentono minacciati dal prossimo, si può essere veramente “all inclusive”, come dice lei. Si può davvero provare ad accogliere tutti.

Foto: Roberta Krasnig

Come si entra, da nuova arrivata, in un mondo codificato come quello di Ferie d’agosto?
Come un orchestrale all’interno di una sala prove, sapendo di poter contare su una partitura tale per cui sai perfettamente cosa devi suonare. In questo Paolo è un genio, sa costruire un’intelaiatura emotiva che tu devi solo seguire, per potere aderire il più possibile al senso del personaggio e dell’impianto generale. Nello specifico, io ho lavorato su una cosa precisa che mi ha chiesto Paolo, e cioè la tenerezza, più che sulla comicità o sulla maschera, che potevano essere un pericolo con un personaggio così estremo. Ho lavorato sul perdono, anzi sul perdonarsi, e in questo ho creato una connessione profonda con lei, perché anch’io come Sàbbri per gran parte della mia vita mi sono sentita bisognosa di una conferma nei sentimenti. Ho provato una liberazione anche come essere umano nel potermi aprire così tanto a livello interpretativo, sul set ero come senza pelle, avevo questa sensazione di essere completamente attraversata dalle cose, sia nel riceverle che nel donarle, ed è una cosa a cui nella vita non siamo più abituati. In Sabrina c’è questo tratto evidente dell’affidarsi agli altri, peraltro in un momento storico in cui invece la diffidenza è un sentimento trasversale. Lei invece vuole comunicare, non ha pregiudizi, e il suo ritardo cognitivo, che dovrebbe essere un limite, diventa simbolicamente la sua risorsa più grande.

Ad essere in crisi, se mai, è il maschio, i maschi in generale.
È uno dei punti cruciali del film. Lo si vede nel Cesare di Vinicio quando chiede disperatamente perdono a Sabrina, e anche in tutti gli altri. Le donne saranno anche disperate, ma piene di risorse. C’è una battuta bellissima di Laura Morante che dice: “Il fallimento è il più grande obiettivo perché non puoi temere più niente”. Gli uomini crollano e non sono abituati, per loro è una cosa da femmine. E invece.

Paolo Virzì sul set con Anna Ferraioli Ravel, alias Sabrina Mazzalupi. Foto: 01 Distribution

Sei attrice ma anche produttrice – prima un documentario, Avanti, sul socialismo in Europa, ora un progetto sulla rivoluzione cubana – e scrivi cose tue. Ecco, da come mi parli anche di Un altro ferragosto mi sembra sempre che alla base ci sia sempre un’autorialità, nel tuo sguardo sul cinema.
Nell’essere attrice, ti dirò, non c’è. Questo mestiere ha a che fare con l’altro da sé, con l’uscire da sé stessi, ed è quello che mi ha permesso di passare da Titina a Sabrina. Quando recito mi metto completamente a disposizione, divento una tela neutra. Per dirti, io non amo cambiare le parole della sceneggiatura, ho un rispetto sacro nei confronti della figura dello sceneggiatore e per questo per me è importantissimo mantenere anche le virgole che ha messo. Però come mi sento libera e assente di giudizio quando recito, allo stesso modo sto cominciando a sperimentare il mio sguardo come autrice, che sta iniziando a maturare adesso. Posso dirti che la mia idea di cinema combacia totalmente con quella di Virzì, che per me è il più grande narratore che abbiamo in Italia. I suoi film fanno ridere e fanno piangere, sono fruibili anche da un pubblico largo restando pieni di stratificazioni. Non c’è mai una lezione, nei film di Paolo. Non è un cinema didattico con una tesi da dimostrare. È cinema sentimentale nel senso di umano, come certa letteratura.

Dicevi che siamo diventati una massa di individualisti: il sogno di un futuro condiviso e collettivo è davvero tramontato?
Io – ed è un tratto che condivido con Sabrina – ho una fiducia sempre rinnovata nell’essere umano, e penso che questo momento di picco involutivo tale deve per forza aprire alla rigenerazione di qualcosa, cosa che per me non può che passare dalle nuovissime generazioni. Noi trenta-quarantenni siamo ancora profondamente condizionati. I nostri genitori sono stati la prima generazione che si è confrontata con temi come la contestazione, e il divorzio, ma che non aveva dimestichezza con l’aspetto psicologico che tutto questo portava con sé. Noi invece siamo la generazione che dallo psicologo ci è andata, però oscilliamo tra l’adesione al vecchio modello della famiglia tradizionale e la paura della relazione con l’altro. Penso che nelle nuove generazioni ci sarà uno slancio diverso verso il prossimo, e lo vedo anche in quello che sta avvenendo. I giovanissimi stanno ritornando nelle piazze: ricordiamoci, a proposito di memoria storica, quello che è successo pochi giorni fa, coi ragazzi picchiati per strada. Diceva Calamandrei che la libertà è come l’aria, ti accorgi che esiste solo quando ti manca. Ecco, Spinelli, Pertini e tutti i “ragazzi” di Ventotene che appaiono in questo film sono come i ragazzi di adesso, la loro modalità assembleare di stare insieme mi commuove. Credo che questo sia l’unico modo per uscire dall’odio e dai nazionalismi, per ricominciare a pensare che esistono tutti, che esistiamo tutti.

Sabrina Mazzalupi diventata influencer ramo beauty. Foto: 01 Distribution

Le cose che stai scrivendo le vedremo?
Fino ad oggi ho assorbito e sto continuando ad assorbire. Mi auguro di trasformare tutto questo in qualcosa che possa essere il mio punto di vista sul mondo, di riuscire a un certo punto a dire la mia. So che voglio mettermi in un altro flusso, quello sì. Seguo il cambiamento, non ho un grande attaccamento verso il passato, non ho nostalgia di quello che ho già vissuto.

Allora facciamo un salto in avanti di 28 anni, tanti quanti ne sono trascorsi tra Ferie d’agosto e Un altro ferragosto.
Credo che sarò ancora esposta, aperta, come lo sono ora: sarà che ho sempre nutrito una scarsissima curiosità nei miei confronti e una grandissima curiosità nei confronti degli altri, fin da bambina, e questa cosa continua ad alimentarmi. Sono una che ascolta più che parlare, pur essendo logorroica, attenzione. Non parlo molto dei fatti miei, mi piace di più ascoltare, ricevere. Eduardo diceva rubate, andate, vivete, e non è che io abbia questo bisogno di rubare, ma vado, esco di casa, e la sera torno distrutta perché assorbo tutto quello che succede per strada.

A Roma poi si assorbe doppio.
Quell’invadenza romana… (ride) Sì, ecco, Roma mi ammazza perché, ricevendo io tutto, diventa molto faticoso. Questo non avere filtri, che è la cosa che mi permette di entrare in connessione con il prossimo, è anche una condanna, perché a volte si trasforma in dolore collettivo. Però è ciò che mi permette di essere felice. Io auguro a tutti di non restare troppo dentro sé stessi, di uscire. Proprio di uscire di casa. La chiave sta là.

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