Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone US il 3 giugno 1976.
Fuori dall’Hotel Burgers Park a Pretoria, in Sudafrica, un gruppo di operai neri in pantaloni larghi e camicie bianche pulite forma un cerchio e beve “birra zulu” di contrabbando da contenitori di carta marrone. Qualche metro più in là, una fila di donne nere con fazzoletti in testa e abiti larghi che nascondono i loro corpi aspetta che gli autobus “Nie-blanke” (“non bianchi”) le portino a fare le pulizie per i bianchi. Dall’altra parte della strada, i monelli di strada con le scarpe scrostate vendono giornali che parlano della dura pioggia che cade in Angola e del tenero bacio che Liz Taylor ha dato al suo autista nero.
Ma sul prato recintato dell’Hotel Burgers Park c’è una realtà completamente diversa. Si potrebbe addirittura definire un universo a sé stante.
Sembra una foto pubblicitaria di Spartacus. Uomini muscolosi se ne stanno immobili, crogiolandosi nel caldo sole che segna la primavera a Sud dell’equatore. Al tavolo di una sala da pranzo all’aperto, Frank Zane, un insegnante della California meridionale, apre una busta di cellophane e inghiotte 200-400 pillole di vitamine/proteine che saranno il suo “cibo” per l’intera giornata. A pochi tavoli di distanza, Ken Waller, appena uscito dalla palestra, spiega con tono ovattato che riesce quasi a sentire i suoi polpacci che gli parlano dopo l’allenamento. Lì vicino, Robbie Robinson, attuale Mr. America dell’AABA, velocista e giocatore di football nero della Florida, esamina le profonde fessure sull’avambraccio destro, poi attraversa l’ingresso. Alloggia in questo hotel, immune dall’apartheid, per gentile concessione del Ministero dello Sport sudafricano. Bandito dalle Olimpiadi per le sue politiche razziste, il Sudafrica ha investito diverse centinaia di migliaia di dollari nei concorsi di Mister Universo e Mister Olimpia per inserirsi nella comunità sportiva mondiale.
Zane, Waller e Robinson sono solo tre degli oltre 400 uomini che sono volati in Sudafrica da 30 Paesi per partecipare a questi concorsi, considerati il Super Bowl del bodybuilding. Molti detengono record per i pesi che sono riusciti a sollevare. Ma per gran parte dell’anno scorso hanno trascorso sei ore al giorno, sei giorni alla settimana – sollevando fino a 40 tonnellate al giorno – cercando di modellare il proprio fisico secondo una visione condivisa di come dovrebbe essere il corpo maschile.
Non lo considerano un concorso di bellezza: c’è forza e lavoro in quello che fanno. Ma tra qualche mese, tre degli uomini più “sviluppati” presenti qui appariranno al Whitney Museum di New York. In una sala piena di statue, di fronte a una giuria di storici dell’arte e a 2.500 curiosi, stringeranno i muscoli per assomigliare il più possibile ai marmi e agli alabastri che li circondano. Alcuni degli storici definiranno la mostra “campanilistica”. Alcuni spettatori “volgare”. Altri, come gli uomini e le donne del Canto dell’amore di J. Alfred Prufrock di T. S. Eliot, “vanno e vengono, parlando di Michelangelo”.
«Se Michelangelo venisse qui e vedesse la gente in piscina, direbbe… a-ha!», osserva Franco Columbu, il Sampson sardo di 85 chili immortalato sulle riviste di settore. A 32 anni, Columbu è stato Mister Italia, Mister Europa e per tre volte ciascuno Mister Mondo e Mister Universo della Federazione Internazionale dei Bodybuilder, la principale organizzazione del suo genere e il gruppo che sponsorizza questo concorso sudafricano. Columbu è un professionista che guadagna circa 50mila dollari all’anno grazie alle sponsorizzazioni, ai prodotti venduti per corrispondenza e alle gare. Nel 1975 si è classificato secondo al concorso Olympia. Non si fa illusioni sul suo corpo: «Non è una cosa normale. Abbiamo i muscoli sviluppati al massimo, e tutto questo è anormale. Siamo troppo sviluppati».
Columbu, come gli altri, è uno specialista nell’anabolizzare i suoi muscoli: li abbatte “bombardandoli” con esercizi specifici, poi li rifornisce di enormi quantità di proteine (compresi gli steroidi artificiali) mentre sono a riposo per farli crescere.
Ma la grandezza non è sufficiente. I muscoli di Columbu devono formare picchi ampi e valli profonde. Ognuno di essi deve essere sottoposto a esercizi – panca per il petto, sollevamenti dei polpacci per le gambe, squat e curl per il resto – per assicurarsi che la crescita sia proporzionale. Devono muoversi fluidamente quando si mostrano davanti allo specchio durante gli allenamenti. E devono essere pronti per i 90 secondi che trascorrerà, oliato e senza peli, sul palco, cercando di diventare Mr. Olympia, cioè il miglior culturista del mondo.
Per riuscirci, però, Columbu dovrà battere Arnold Schwarzenegger, l’eroe tutto muscoli del momento.
Sdraiato su un asciugamano che ha posizionato al centro del patio, Arnold Schwarzenegger (il cui nome in austriaco significa “uomo dall’aratro nero”) osserva gli altri culturisti che prendono tranquillamente il sole o sollevano chiassosamente sulla testa alcune ragazze del posto. Anche in questa compagnia, il suo aspetto è insolito. Il suo corpo di un metro e novanta per 100 chili si assottiglia da un massiccio torace di 140 centimetri, passando per i muscoli della schiena sognati solo dai Mister Universo degli anni Quaranta, poveri di proteine, e poi si snoda in una vita affusolata. I suoi polpacci sono cuori rovesciati. I suoi bicipiti sembrano palle da softball scolpite. I muscoli della schiena sono stati scavati da un tagliabiscotti che fa gli straordinari. Due giorni fa, ha concluso un’intervista televisiva sbattendo le palpebre sui suoi pettorali, e quei diavoletti tutt’altro che piccoli stanno ancora saltando intorno al suo petto come canguri sotto metedrina.
Le riviste specializzate lo chiamano “la quercia austriaca”, tutti gli altri lo chiamano Arnold. Secondo Charles Gaines, che ha scritto il testo di Pumping Iron, il libro fotografico che ha legittimato l’interesse per “l’arte e lo sport del bodybuilding” tra persone che non sapevano distinguere un tricipite da un triciclo, “la cosa che rende Arnold unico non è solo il fatto che sia grande. Ogni singola parte di Arnold è perfetta, dalle caviglie fino ai polsi e alle dita. Lo vedi muoversi e non vedi un solo rapporto imperfetto tra una cosa e l’altra”.
Arnold Schwarzenegger è stato Mr. Universo per cinque volte e Mr. Olympia dal 1970. Non perde una gara di bodybuilding da otto anni e, a 28 anni, guadagna 100mila dollari all’anno posando ed esibendosi in gara, nonché grazie a sponsorizzazioni, investimenti e vendita di libri e dispositivi per lo sviluppo dei muscoli. I media gli hanno dato ampio spazio. Due servizi su People. Un servizio con Candice Bergen al Today Show. Il documentario Pumping Iron che George Butler, l’uomo che ha scattato le foto del libro, ha diretto in Sudafrica. Un ruolo importante nella produzione hollywoodiana di Bob Rafelson Il gigante della strada, l’adattamento cinematografico del romanzo di Gaines sull’incontro di un ricco ragazzo del Sud con il mondo ingenuo e plastificato del bodybuilding.
Arnold è sul prato per la parte finale del suo allenamento. Si è allenato, ha mangiato e dormito, e ora sta abbronzando la pelle fino a raggiungere il tono che darà ai suoi muscoli la migliore nuance sotto le luci dell’auditorium dell’Università del Sudafrica, dall’altra parte della città. Non è esattamente un lavoro duro, ma viene ripetutamente interrotto da un flusso costante di visitatori. Un padre corpulento porta il figlio a chiedere un autografo. I concorrenti di seconda fascia vengono a presentarsi. Un concorrente di Mr. Universo, il cui petto sembra un’enorme fisarmonica pieghettata, chiede addirittura: “Ehi, Arnold, devo mangiare un pezzo di frutta o un pezzo di pane tostato per colazione?”.
C’è una scena in Pumping Iron che riassume bene tutto questo. Arnold e un gruppo di culturisti di livello mondiale stanno posando al Muscle Rock, a Venice, in California. Mentre mostrano le loro pose e i loro muscoli, Arnold si sposta al centro, un po’ più in alto degli altri. Ora spiega perché pensa di appartenere a quel posto: “Credo che ci siano solo pochi leader”, dice con voce gutturale e sicura, “e il resto sono seguaci. Sento di essere un leader nato. Odio essere il seguace. Mi capitava quando ero un ragazzino…”.
Arnold è cresciuto a Graz, in Austria. Sua madre era una casalinga; suo padre, ora morto, un poliziotto che era anche campione europeo di un oscuro sport, il curling su ghiaccio. I suoi genitori pensavano che sarebbe diventato un meccanico o un uomo d’affari, e lui sembrava orientato in quella direzione. Poi ebbe una visione.
«Verso la fine delle scuole elementari ho avuto questo incredibile desiderio di essere riconosciuto. Ogni volta che guardavo la televisione o i film mi mettevo sempre sullo schermo e dicevo: “Come sarebbe se la gente mi guardasse?”. Non so perché. Avevo la sensazione di essere destinato a essere qualcosa di più di un ragazzo qualunque, di essere stato scelto per fare qualcosa di speciale».
«Allora non pensavo ai soldi. Pensavo alla fama, ad essere il più grande. Sognavo di essere il presidente di un Paese o un salvatore come Gesù. Solo per essere riconosciuto».
Dopo un po’ di tempo, «ho iniziato a dedicarmi al bodybuilding». Era una scelta plausibile per una persona che sognava la fama. I bodybuilder gareggiano senza compagni di squadra, senza attrezzature, con solo i tronchi da posa tra loro e il pubblico. La loro presenza richiede la stessa attenzione che si presterebbe a uno spettacolo di cavalli pregiati, e i veri fan rispondono con l’intensità del pubblico di un rodeo. Chi vince si prende tutto.
«La gente mi dice: “Perché ti alleni? Perché vuoi avere un corpo perfetto? Non sai che è più importante quello che hai dentro, quello che hai nel cervello?”. Ma non si tratta di te. È un corpo, e tu lo guardi come un pezzo che cerchi di rendere perfetto. Non ha nulla a che fare con la perfezione di sé stessi, perché per essere perfetti ci vuole molto di più di un corpo. La cosa più importante è essere mentalmente e fisicamente equilibrati».
«Si lavora sul proprio corpo come un artista lavora su una scultura. Lui dice: “Penso che dovrei mettere un po’ più di argilla sui polpacci”, mentre tu dici: “Penso che dovrei fare dieci serie in più di lavoro sui polpacci”. Se hai un buon occhio, vedi i difetti e ci lavori sopra. Non ci si può guardare allo specchio e dire: “Sto benissimo”. Devi essere molto clinico, analizzarlo e lavorarci su».
Ma questo non è egocentrismo?
«Quello che la gente non capisce è che l’unico modo per verificare i propri progressi è mettersi in posa allo specchio e scoprire come vanno i movimenti, se i muscoli si separano, se aumenta la definizione e la simmetria, e così via. L’intero viaggio è totalmente mentale. La mente deve essere forte per affrontare questi allenamenti. Io mi concentro sull’obiettivo che ho davanti a me e qualcosa mi spinge a farlo, una forza speciale».
«Se si supera la barriera del dolore, si diventa campioni. Quando fa male, e quando c’è dolore durante l’allenamento, significa qualcosa di positivo: crescita, successo, un passo avanti verso la vittoria. Quindi diventa piacere. Il dolore diventa piacere senza per questo essere masochisti».
Arnold è stato nuotatore, calciatore, sciatore, pugile, lottatore, tiratore, lanciatore di giavellotto e campione europeo di curling. A 19 anni lavorava come istruttore in una palestra, dove poteva fare il check-pose allo specchio e perfezionare la sua disciplina. Era anche un allegro burlone.
«Un ragazzo è venuto a dirmi che voleva imparare una nuova tecnica di posa, quelle vecchie le aveva già perfezionate. Così l’ho fatto posare per me e sembrava un idiota. Allora gli ho detto: “Ok, se ora pensi di essere un buon posatore, ti migliorerò molto”, facendoti sembrare ancora più idiota. Così gli ho detto che il nuovo sistema di posa è urlare mentre si posa. E lui mi ha chiesto: “Come funziona?”. E io: “Ovviamente è un segreto. Viene dall’America. Chi lo fa per primo in Europa sarà ovviamente il vincitore di molti concorsi”. Lui si è oliato e io gli ho detto: “Più le tue mani sono basse in una posa, più devi urlare, e più le tue mani sono alte sopra la testa, più devi urlare”».
Ringhia: «Oooooh-aaaaiee!». Poi continua.
«Il ragazzo ha detto: “Sembra impressionante. Questo farà capire alla gente che sei in alto”. Così l’ho allenato per due giorni e una settimana dopo c’è stato il concorso di Mister Monaco. Gli dissi che avrebbe dovuto giurare di non dirlo a nessuno, perché temevo che qualcuno gli avrebbe detto: “Sei uno stupido”».
Continua, con fare cospiratorio. «Lui me lo promette, e arriva il concorso di Mister Monaco. Gli dissi che avrebbe dovuto correre fuori con un forte urlo. E lui è corso fuori, grondante di olio, e ha iniziato a urlare: ‘Oooooh-aaaaaiee!‘ con occhi da pazzo. Lo tirarono giù dal palco e lo portarono via. L’hanno preso molto sul serio. Continuava a gridare: “Arnold! Aiuto! Non mi capiscono!”. Tornò una settimana dopo e mi chiese: “Cos’è successo?”. E io risposi: “Non erano abbastanza istruiti”».
«Lo faccio solo quando un ragazzo è davvero uno stronzo. Se qualcuno viene da me e mi dice: “Arnold, ho davvero bisogno di aiuto”, mi prendo il tempo necessario per sedermi con lui e inserirlo in un programma che lo aiuterà sicuramente. Ma se qualcuno viene da me e mi dice: “Sono più forte di te e ho braccia più grandi delle tue, ma voglio che siano ancora più grandi. Come faccio?”, allora può essere sicuro al 100% che lo manderò a quel paese».
La famiglia Ferrigno è riunita intorno al tavolo nella sua casa di Brooklyn. Tra un boccone e l’altro, Matty Ferrigno, tenente della polizia di New York in pensione, si china sul tavolo e racconta al figlio Louie, 23 anni, che allena, un sogno che ha fatto.
«Mancano circa cinque minuti e comincio a metterti l’olio addosso… e quando scendono a due minuti comincio a pensare al bestiame che va al macello». Matty fa una pausa per un altro boccone, poi continua. «È così difficile. Continuo a chiedermi: “Alla fine ti abbraccerò o ce ne andremo come cani bastonati?”».
All’Università del Sudafrica, 12mila chilometri da Brooklyn, Matty e Louie Ferrigno si stanno preparando per l’Olympia.
La sala in cui si stanno preparando ha l’aspetto di un tipico scantinato di periferia: pannelli in legno chiaro, un divano in pelle lungo una parete, moquette rossa e nera. Le uniche caratteristiche insolite sono uno striscione che pubblicizza la margarina Blossom “per la salute e la forza” e una grande quantità di pesi.
«Arrgh!».
Con il suo metro e ottanta e i suoi 120 chili, Louie è stato definito l’unico che può battere Arnold. Ora si china e tira un bilanciere da 80 chili vicino al petto con un movimento che dà il nome all’esercizio: il bendover row. Ogni ripetizione è accompagnata da un urlo spaventoso.
Ma dall’altra parte della stanza, Arnold fa capire di essere sicuro delle sue possibilità.
«Cos’hai detto, Louie?», dice, rispondendo all’urlo di Ferrigno. «Fai troppo rumore. Qui deve esserci silenzio… come in una chiesa».
Arnold sta scherzando, ma nella stanza c’è un’atmosfera adrenalinica che gli ultimi preparativi non fanno che rafforzare. A pochi minuti dall’Olympia, si sdraia supino su una panca per esercizi e inizia il rituale più intimo del bodybuilding.
Imbracciando un paio di manubri da 30 chili, Arnold inizia ad allenarsi.
Facendo un respiro profondo, solleva i pesi dal pavimento fino a farli scattare leggermente sul suo petto. Poi li fa oscillare di nuovo verso il suolo. L’unico suono è una breve espirazione.
Arnold ripete l’esercizio, che si chiama dumbbell flye e che in precedenza aveva descritto come «abbracciare la propria ragazza». Una volta, psst. Due volte, psst. Qualche altra volta. Ritmicamente, il sangue ricco di ossigeno inizia a scorrere nella parte superiore del corpo. I muscoli diventano caldi. Il suo petto cambia effettivamente forma. Le creste che delimitano i pettorali si affilano e le vene si ergono come filigrana su una corazza. È una cosa incredibile.
«Si può dire che il pump è come andare a letto con una ragazza», dice. «È una sensazione magnifica, come se fossi stato nel deserto per due settimane senza acqua e poi avessi avuto il primo sorso. È la sensazione definitiva, quella che ogni bodybuilder aspetta con ansia».
Il pump di Arnold è anche uno psyche-out, progettato per convincere gli altri che non dovrebbero preoccuparsi di salire sul palco. Serge Nubret, Mr. Europa, un uomo nero con gli addominali scolpitissimi, guarda il petto di Arnold luccicare e fissa il pavimento. E quando Arnold chiede a Lou come pensa di cavarsela, Ferrigno risponde: «Perderò, Arnold. Sei il migliore».
Ventiquattro ore prima, il concorso di Mr. Universo sembrava il bestiame di Matty Ferrigno che andava al macello. Alcuni di quell’esercito di uomini che si aggiravano sui pavimenti in pietra e legno sapevano di essere lì solo per partecipae. Altri si sentivano come Mike Katz, il gigantesco ex lineman dei New York Jets e attuale insegnante del Connecticut. «Se non vincessi il concorso di Mr. Universo, non mi sentirei un uomo».
L’ha vinto Ken Waller. Katz è arrivato quarto. Brutti polpacci.
Oggi la tirannia della perfezione continua. Per prima cosa, la categoria sotto i 90 chili si è ridotta a una gara tra Columbu e Ed Corney, 42enne proprietario di un nightclub di San Jose che è considerato il miglior posatore del mondo. L’ha spuntata Columbu, più muscoloso.
Ora Arnold, Nubret e Ferrigno sono sul palco dell’auditorium quasi vuoto per le prove preliminari che determineranno il finalista della categoria oltre i 90 chili.
«Strike!», dice il giudice capo, e i tre uomini si muovono in senso antiorario attraverso le sei pose obbligatorie. Tengono il doppio bicipite anteriore, tendendo le braccia come se le vene contenessero caffeina anziché sangue. Poi il petto laterale, con le braccia destre all’altezza dei fianchi per incorniciare i pettorali. Passano al bicipite posteriore, modificandolo in un lat spread che apre i dorsali come mante. Un colpo al petto a sinistra. E poi un lat spread anteriore, con lo stomaco praticamente risucchiato. I giudici valutano in silenzio, verificando le dimensioni dei muscoli, la definizione, le proporzioni, la simmetria e persino le vene, che rivelano l’assenza di grasso sotto la pelle.
In piedi, in silenzio, prima delle pose facoltative, quando ogni concorrente cerca di massimizzare le sue “parti” migliori e di nascondere i suoi “difetti”, Arnold sembra sicuro di sé. Ha scolpito il suo corpo per eliminare le imperfezioni. Ha guardato i filmati dei suoi avversari. Ha preso lezioni di danza classica per sciogliere le pose. Ha persino messo in atto qualche asso nella manica che ha lasciato nello spogliatoio.
«Non si deve buttare gli avversari fuori strada», ha spiegato. «Quando vedi il tuo obiettivo davanti a te, l’unico modo per raggiungerlo è camminare dritto verso di esso. E qualsiasi cosa si trovi davanti a te, devi sfidarlo faccia a faccia. Il che a volte è un po’ crudele ed egoista, ma non hai altra scelta».
Questa è successo a lui, dice, nel 1970, quando lui e un muscolosissimo istruttore del Dipartimento di Polizia di Chicago, Sergio Oliva, si sono messi l’uno contro l’altro.
«Giudicavano la gara davanti a un pubblico. Così, quando ci siamo messi in posa, metà della gente ha urlato per lui e metà per me. Ho pensato: non si può correre rischi, potrebbe andare in entrambi i modi. Abbiamo posato per circa dieci minuti, abbiamo fatto una posa di spalle e ho detto: “Fanculo, andiamo via”. Lui ha detto: “Va bene così”, e se n’è andato. Ma non ha guardato quello che stavo facendo io, così sono rimasto lì e ho continuato la gara. Allora l’ho richiamato e gli ho detto: “Sergio, non mollare”. Fece la figura dell’idiota. Gli spagnoli gli si rivoltarono contro. I neri gli si rivoltarono contro. L’intera sala gridava: “Arnold!”».
Sul palco, durante le pose facoltative, ogni uomo combatte una battaglia tra tirannia e umanità. Mentre diventa un lanciatore di dischi, una candela tremolante, un novello uomo delle caverne che fa spuntare i muscoli come se si trovasse su una griglia elettrificata, i giudici sottraggono punti per i difetti percepiti. Mentre ogni uomo sostiene a fatica che quello che fa è uno sport, si confronta con il fatto che la sua performance è più vicina a quella di un attore che a quella di un giocatore di football. L’ideale di uomo si misura in base alle dimensioni dei suoi muscoli, e la bellezza a volte sembra essere solo a fior di pelle.
Ma George Butler ha colto il lato umano di ciò che sta accadendo: “Il bodybuilding ha preso la cosa più semplice che l’umanità ha e l’ha esaltata. Si occupa della cosa più elementare che è stata data all’uomo: il suo corpo”.
Arnold eleva questa semplicità a un livello superiore. La tirannia della perfezione trova Ferrigno non abbastanza “tagliato” e Nubret “troppo fine”. Ma in una posa con Nubret, Arnold combina la potenza di un braccio flesso con la tenerezza di un palmo aperto. E di notte, quando gareggia contro Columbu davanti a mille sudafricani bianchi, le urla per lui sono le più forti. Columbu si accovaccia per mettere il suo busto massiccio all’altezza degli occhi e nascondere il leggero arco delle gambe. Ma quando Arnold si inginocchia e si alza in volo, in una posa che certifica la sua vittoria del primo premio di 2.500 rand (3.000 dollari), un osservatore guarda oltre i muscoli e vede «la gioia e l’ironia».
Arnold Schwarzenegger dice che «tutti i ragazzi [che partecipano a queste gare] sono gente di strada». Tornato negli Stati Uniti in attesa del prossimo concorso, Ken Waller, Mister Universo, vende auto usate a Los Angeles. Frank Zane, alias Silver Surfer per alcuni media, insegna matematica alle scuole superiori e attribuisce la sua media del 3,85 in un corso di laurea in Psicologia alla disciplina appresa con il bodybuilding. Il sardo Sampson, conosciuto nel campus come Franco Columbu, studia in un college di chiropratica a Los Angeles. Il “miglior poser del mondo”, Ed Corney, sta fisso alla porta del suo bar.
Arnold non aspetta. Ha abbandonato le competizioni ed è andato a Hollywood.
«Volevo essere il migliore al mondo in qualcosa, non mi importava cosa. Ora m’interessa dedicarmi ad altro, come la recitazione e gli affari. Sono rimasto [nel giro delle gare] 13 anni. Perché non fare qualcos’altro nei prossimi dieci? Forse posso diventare grande in quello».
«Può entrare nella nostra società e fare carriera». Joe Weider siede a bordo della sua piscina, dotata di una cascata artificiale e di altri dettagli di lusso. È una giornata calda a Hollywood e, nello spirito del giornalismo-verità, mi sto abbronzando con lui. Sono arrivato impreparato, quindi il mio costume da posa è un paio di slip da fantino.
La descrizione di Weider inizia così: «Ho 54 anni, sono alto un metro e 80 e peso 90 chili. quando sono in forma ne peso 85». Non assomiglia tanto al disegno erculeo che spesso campeggia sulla copertina della rivista Muscle Builder/Power, quanto piuttosto a un avventore di un circolo inglese. Ma non illudetevi: nel corso degli anni il potere di Weider non ha fatto che aumentare. Il complesso di società a nome Weider, ospitato nel Weider Building di Woodland Hills, California, comprende la Joe Weider Health and Fitness, la Body Persuasion System Inc. e la Weider Communications. Queste aziende producono attrezzature per l’esercizio fisico per la gente comune e prodotti per gli appassionati di fitness. Le sue riviste vendono 250mila copie al mese. Ha accordi commerciali con aziende di tutto il mondo. Suo fratello Ben dirige la Federazione Internazionale dei Bodybuilder, e le dispute giurisdizionali su chi avrebbe rappresentato la squadra americana in Sudafrica erano manovrate da lontano proprio da Joe Weider.
Weider ha lottato per uscire dal ghetto ebraico della Montréal franco-canadese, e dalla sua bocca escono brevi massime filosofiche come proiettili di mitragliatrice. Il bodybuilding non è senza scopo: «Qual è lo scopo di scalare una montagna?». Ti mette «in sintonia con la vita». Gli omosessuali desiderano i culturisti, ma i culturisti non sono omosessuali. La prova: «Le donne che hanno sposato hanno tutte le tette grosse. Se vai alle feste di Arnold, vedi solo ragazze con le tette grosse».
Joe Weider ha portato Arnold in America. «Era in Europa», racconta Weider, «e ho chiesto a uno dei nostri agenti all’estero di incontrarlo a Londra e di farlo di venire qui per partecipare al nostro concorso in Florida. Se fosse venuto qui, gli avrei pagato le spese. E mentre era sotto i riflettori, avrei potuto vedere se aveva le carte in regola per diventare un grande campione. Molte persone hanno grandi corpi e grandi potenzialità. Volevo solo vedere se aveva la forza di volontà, la determinazione, la capacità di concentrare nel suo allenamento la ferocia che avrebbe portato a certi risultati».
Arnold perse il concorso di Mr. Universo del 1968 contro Frank Zane, ma Weider rimase impressionato. «Aveva una grande massa, ma non le proporzioni perfette, e il suo corpo non aveva la bellezza a tutto tondo dell’altro. Era un discreto posatore, non così bravo come pensava lui, ma mi sono allenato con lui e ho capito che aveva davvero il fuoco. L’ho fatto venire in California per allenarsi, avere la mente libera e dedicarsi a questo sport».
«Gli abbiamo fatto molta pubblicità, lo abbiamo promosso, lo abbiamo fatto conoscere al mondo». L’accordo ha avuto vantaggi reciproci: in un numero della rivista Muscle Builder/Power, Arnold ha sponsorizzato, nell’ordine, il Mr. America Home Gym Training Outfit, l’Arnold’s Super-Arm Blaster/Kambered Kurling Bar (due volte ciascuno), gli integratori proteici Weider e i Joe Weider’s Wildcat’ Protein Powerizers, oltre a una cintura di supporto per i pesi (la Joe Weider’s World’s Most Powerful Lifting Belt), i nove opuscoli Arnold Strong’ Shortcuts to Massive Muscularity e il The Arnold Photo Album. È stato anche protagonista di Arnold on Location, un servizio sulle riprese del Gigante della strada. E ha tenuto la rubrica Chiedi al campione.
Diciotto pagine di pubblicità. Due pagine di articoli. Una rubrica. È molto meglio che fare il turno di notte in fabbrica.
Weider e Arnold hanno un rapporto interessante. Arnold lo definisce «una figura paterna e per certi versi un idolo» e fa una grande imitazione della sua voce. Weider parla della «forza di volontà», della «ferocia dei suoi obiettivi» e della «sensibilità verso le persone» di Arnold, ma suggerisce paternamente che Arnold dovrà decidere tra la competizione, il cinema e gli affari. «Non puoi servire due padroni e arrivare in cima». Tuttavia, Weider non ha dubbi sul successo di Arnold. «Il suo futuro si baserà sulla sua intelligenza. Ed è un futuro molto luminoso».
A San Jose, in California, qualche tempo dopo, appare chiaro che Arnold è in grado di volare con le proprie forze. Il Center for the Performing Arts, con 3.100 posti a sedere, è tutto esaurito per lo spettacolo Mr. Western America, che Arnold sta co-producendo. L’atmosfera è quella di un concerto di musica classica: mentre i culturisti posano tra le colonne ioniche, il pubblico rimane stranamente in silenzio. Nel backstage, Arnold, vestito con disinvoltura, lavora al pannello sonoro, amplificando il nastro rock e jazz composto dal cantautore di San Francisco Ron Nagle, che completa Exodus, la tradizionale canzone usata mentre si posa.
Arnold fa salire sul palco i beniamini locali Ed Corney, Ken Waller, Robbie Robinson, Franco Columbu e Frank Zane e si esibisce brevemente. George Butler mostra 20 minuti di Pumping Iron. Lo spettacolo non è epico, ma è abbastanza professionale, e Arnold non avrà problemi se deciderà di fare una tournée in tutto il Paese.
Tra i corpi seminudi che si aggirano nel backstage, un uomo in abito elegante se ne sta in disparte, sorridendo. Joe Weider è venuto a porgere i suoi omaggi. Il suo profilo volutamente basso convalida la stima di Arnold. «Ha molta influenza sulla mia vita perché io lascio che lui si comporti così nei miei confronti».
Arnold Schwarzenegger ha fatto il suo debutto al cinema in Ercole a New York, un film del 1970 che aveva come protagonisti il comico Arnold Stang e il recente immigrato “Arnold Strong”. Ora, sullo schermo della Outov Inc. di Harold Schneider e Bob Rafelson, Il gigante della strada sta per essere presentato in anteprima.
Man mano che il film procede, diventa chiaro che il regista/co-produttore Rafelson, che ci ha dato titoli come Cinque pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin, si è concentrato più sulle grottesche storie del Sud che sul mondo (comunque grottesco) del bodybuilding. Le riprese delle gare sono ridotte al minimo e il bodybuilding non viene spiegato. Vestito per quasi tutto il film, Arnold è costretto a fare affidamento sulla sua recitazione invece che sui suoi tricipiti.
«Molto prima di mandare Arnold a scuola di recitazione», aveva detto Rafelson, «gli avevo detto che sarebbe stato un calvario e che sarebbe passato dall’essere il Numero Uno dell’Universo a essere un attore qualsiasi».
«Quando ho preso lezioni di recitazione e qualcuno mi ha detto “Rifallo” o “Arnold, non andava bene”, l’ho presa molto sul personale, come se non fossi bravo. È stato un duro colpo. È stato come abbandonare tutto ciò che avevo e dire: ok, ricominciamo dall’inizio. Non sei niente qui. Sei solo un principiante. Sei solo un piccolo teppista con questi attori. Sei solo una merda».
Rafelson ricorda che Arnold fu profondamente colpito dalla sua nuova situazione. «Aveva degli incubi in cui lo chiamavo in ufficio e gli dicevo: “Dài, Arnold, iniziamo a lavorare”, e le luci si spegnevano e lui veniva valutato da una persona senza volto».
Ma Arnold si è ripreso. «Come ho fatto a vincere Mister Universo? L’ho vinto perché avevo fiducia in quello che stavo facendo. Non ho avuto un atteggiamento negativo. Ho fissato il mio obiettivo e l’ho raggiunto senza nemmeno chiedermi se ce l’avrei fatta o meno. Devi applicare lo stesso metodo per avere successo anche in tutto il resto».
Ha lavorato duramente, e si è aperto alle critiche durante le sessioni di casting. Ha persino ceduto il controllo del suo corpo a Rafelson, che gli ha ordinato di perdere dieci chili per evitare di essere sproporzionato rispetto a Craig Blake (Jeff Bridges), il ricco ragazzo protagonista, e Mary Tate Farnsworth (Sally Field), un’arguta ragazza di campagna.
«Ora è un ragazzo di un metro e 90 per 85 chili», osserva Rafelson. «Quando si spoglia per la gara di Mister Universo, è un momento molto emozionante. Quando la gente lo vede ha un sussulto. La telecamera lo inquadra e Arnold è semplicemente stupendo».
Sullo schermo è evidente che, anche se ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che Arnold salga sul palco degli Oscar, ha definitivamente superato la barriera del semplice beefcake. Nei panni di Joe Santo, Mr. Austria, suona un violino (e lo dimostra tenendo una nota più a lungo dei musicisti che lo circondano). È abbastanza bravo da far dire a Rafelson: «Penso davvero che possa interpretare un’intera gamma di ruoli».
E cosa vede Rafelson in Arnold quando non inquadra il suo corpo con la macchina da presa? «Non credo che si tratti di ciò che si fa nella vita, ma della soddisfazione che se ne trae», risponde il regista. «Arnold rappresenta una persona profondamente soddisfatta».
È primavera in California, e Arnold siede comodamente sul divano della sua casa di Santa Monica. Il disco in cima alla pila vicino allo stereo non è You’re So Vain o Pump Iron di Alvin Lee, ma Breakaway di Art Garfunkel. Sotto le scale sono appesi tre quadri, uno dei quali – il ritratto dolcemente macho di un uomo che tocca il seno di una sirena – si rivela essere uno Chagall. Al piano superiore, un ufficio è pieno di pile ordinate di libri di Arnold sullo sviluppo muscolare. Non ci sono pesi in casa: «Non li tengo qui», dice Arnold facendo una smorfia.
Quel giorno Joe Weider aveva ricordato i primi giorni di Arnold in America. «Quell’uomo arrivò qui e sapeva a malapena parlare inglese. Aveva un accento molto pesante. Non sapeva come muoversi». La previsione di Weider di un futuro brillante includeva la convinzione che «è l’unico culturista che ha avuto abbastanza intelligenza per portare nella società ciò che ha realizzato fisicamente». Weider aveva detto che Arnold era una specie di ragazzo americano: «Ha iniziato dal basso, si è fatto strada, ha superato ogni sorta di difficoltà». Interrogato in proposito, Arnold è d’accordo.
«Sono più o meno tutto quello che hai appena detto. Ma credo di essere il ragazzo al 100% europeo. Questo Paese mi ha fatto conoscere e apprezzare. L’America è una miniera d’oro, è il paradiso, per il suo sistema politico, il sistema di polizia e tutto il resto. L’Europa è brutale. È uno Stato di polizia. Apprezzo l’America per l’educazione che mi ha dato, e anche per i soldi: in Austria non ce n’erano molti».
Il fatto che qui sia così apprezzato non significa però che l’America è la ragione del suo successo. «Il fattore principale del mio successo è uno solo: sono destinato a essere qualcosa di speciale. Ciò che intendo dire è che ho la sensazione di non essere un ragazzo medio. Penso di non essere nato solo per morire, per cagare ogni giorno, mangiare, lavorare, fare soldi, eccetera. Ero destinato a fare di più, a fare cose rivoluzionarie, a battere record, a fare cose che nessun altro può fare. Tutti [in Austria] dicevano: “Farò il muratore, farò il meccanico”, e mi chiedevano: “E tu Arnold, cosa farai?”. E io rispondevo: “Non lo so, ma una cosa la so: non resterò in questo Paese per tutta la vita. Sarò in America da qualche parte. Lì diventerò qualcosa di veramente grande”. Pensavano che fossi malato di mente».
«Ho iniziato lentamente. Ho sempre guardato con disprezzo le persone che facevano le cose normali. Ad esempio, quando i ragazzi iniziavano a fumare a 11 anni, ero il primo a dire: “Non va bene”. Pensavo che fosse una cosa per gli untermensch, cioè per la classe bassa. E poi tutti uscivano la sera e andavano a ballare perché non c’era nient’altro da fare; non che si divertissero a ballare, era solo l’unica cosa che si poteva fare. E io pensavo che fosse una cosa stupida. Trovavo che stessero sprecando il loro tempo e la loro vita invece di fare qualcosa di più, dove poter progredire, poter andare avanti, imparare qualcosa, fare qualcosa per sé stessi».
«Ho sempre guardato i miei amici e non riuscivo a capire perché facessero così. C’è molto più significato nella vita che non passare attraverso tutti i normali step e poi morire. I miei amici ora sono tutti sposati, hanno problemi a casa, hanno bambini che corrono dappertutto gridando forte. Vanno in fabbrica a lavorare, mentre io sono qui e mi diverto».
La conversazione si interrompe quando Reli Schwarzenegger, la madre di Arnold, scende al piano di sotto. Arnold l’ha portata a Santa Monica per una lunga vacanza, la prima insieme da quando lei lo vide posare in Germania, nel 1972.
Con Arnold che traduce davanti a un caffè e a una fetta di torta, la signora Schwarzenegger racconta com’è stato per lei assistere a una gara di bodybuilding. «Dice che quando mi ha visto gareggiare a Essen, ha ripensato a quando avevo dieci anni e dicevo che sarei stato il più grande». Improvvisamente Arnold scoppia in una risata isterica. «Dice di essere orgogliosa del fatto di avere un figlio con dei muscoli così grandi, ma se fosse una ragazza giovane non si innamorerebbe di me».
Le reazioni delle signore variano. Una buona amica, una donna alta e alla moda, ne è molto affascinata. Un’altra, una bella assistente editoriale, lo definisce «uno stupido fanatico». Una terza, un’aspirante attrice, ha visto Il gigante della strada e ha sussultato quando Arnold svela il suo fisico, commentando: «È affascinante anche con tutti quei muscoli».
Arnold non si lamenta. È stato il migliore nel suo campo e sta sfiorando il successo in molti altri. E ha il dono del politico, la capacità di concentrare l’energia in modo che le persone pensino che abbia occhi solo per loro.
Tuttavia, le sue osservazioni ricordano un momento delle riprese per Pumping Iron allo zoo di Pretoria. Camminando tra leoni ed elefanti, Charles Gaines, che Arnold definisce «un idolo» per il suo equilibrio tra attività fisica e mentale, cercò di farlo parlare delle sue emozioni. In un primo momento, George Butler ha percepito Arnold come guardingo; in seguito ha lodato la sua franchezza. Durante le nostre interviste, le risposte di Arnold rivelano una contraddizione simile.
Delusioni: nessuna. Paure: solo dell’«ignoto». Gentilezza: «Più si diventa forti e sicuri, più ci si può permettere di essere gentili e buoni con le persone». Risate: «Posso trasformare qualsiasi cosa in divertimento». Le frustrazioni degli altri: «Ci penso molto poco. Nessuno pensa a me quando sono frustrato. Devo preoccuparmi solo delle mie cose».
E la sicurezza? «La sicurezza», dice, uscendo dalla porta e dirigendosi verso la sua Mercedes 450 parcheggiata nel vialetto, «non significa nulla per me. Non c’è più sicurezza nel mondo, è stato dimostrato più volte. Sapete cosa è successo ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Se hanno comprato una casa, non l’hanno più riavuta. Guardate la Germania e il popolo ebraico. È stato portato via tutto. Non c’è sicurezza… e molte persone si preoccupano della sicurezza».
«Io no, non sono così preoccupato per la sicurezza. Penso che finché si lavora su sé stessi per fare qualcosa di speciale, e se si è grandi, qualsiasi sia il momento – depressione, recessione o crollo totale di un Paese – si può sempre andare avanti. Ti apprezzeranno sempre, se sei bravo in qualcosa».