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Artem, per soldi o per amore (del cinema)

La sua è una storia da grandi titoli. Da un villaggio ucraino a Napoli: sul red carpet di Berlino per 'La paranza dei bambini' e nel cast della serie Rai 'Mare fuori'. All’inizio lo faceva per l'idea di riscatto, poi il set gli ha aperto la mente. Ma sempre con i piedi per terra

Foto: Vittorio Zunino Celotto/Getty Images

Nel villaggio in cui viveva da piccolo l’elettricità dipendeva solo da due lampioni, a distanza di 150 metri l’uno dall’altro. Quando d’inverno pioveva, il cavo elettrico che connetteva i due pali si ghiacciava. Per poi spezzarsi. «Restavamo anche per un mese senza corrente e senza luce. Allora mia nonna accendeva la candela e mi raccontava delle storie. Io però visualizzavo quello che c’era fuori: un’altra vita».

Il primo viaggio in Italia è arrivato a 6 anni, giusto il tempo di incontrare i genitori. Il secondo a 10, e stavolta per restarci: Napoli, rione Salicelle («dove lo Stato non c’è», titola la stampa). Ma questa è tutta una storia da grande titolo. Tipo: «Dall’Ucraina a Napoli: Artem sul red carpet di Berlino per La paranza dei bambini e nel cast della serie Rai Mare fuori». Sembra facile, no? Emigrare, farcela, fermarsi nel posto sbagliato finché qualcuno non ti nota e in un attimo fai l’attore. C’è chi ti salva, e poi c’è pure chi inizia a riconoscerti e magari ti chiede una foto. Sembra facile: non lo è.

Per lasciarsi alle spalle la vita di quartiere non basta un talent scout che ti ferma per strada («Ma sai che hai proprio una faccia da cinema?»), non bastano promesse di successo né tantomeno una lunga gavetta teatrale. La verità di Artem? Non basta neanche una telefonata fortunata per un casting che ti porterà dove solo l’establishment arriva, tra i protagonisti dei grandi festival internazionali. Perché il fuoco di paglia è dietro l’angolo.

Artem in ‘Mare fuori 2’. Foto: Sabrina Cirillo

Per convincere uno cresciuto prima tra i boschi di Uman’ e poi a Salicelle, serve un’opportunità concreta. Vale a dire? Soldi. La prospettiva tangibile di fare la vita che ha sempre invidiato agli altri, quelli a cui “un’altra vita” spetta per nascita. Artem ha iniziato a fare l’attore per guadagnare, e continuerà solo a patto di guadagnarci. A prescindere dal talento. Troppo cinico? Troppo distante dall’epopea dell’artista votato al sacrificio e alle attese? Lui risponderà che non c’è tempo da perdere con sogni impraticabili quando cresci con il pensiero di scappare e sfamare la tua famiglia.

Qualche settimana fa era in scena con uno spettacolo di Annalisa D’Amato e Maurizio Braucci, Casting per un film dal Woyzeck. Un ragazzo invisibile cresciuto in un quartiere invisibile si presenta a un provino con un monologo provocatorio. Lì dentro, mi confessa, ci trova un parallelismo che quasi mi imbarazza tanto è plausibile: «La denuncia contro il sistema di sfruttamento dei soldati mi ricorda quello dei ragazzini a Napoli: il cinema arriva e sfrutta le loro sofferenze, i loro svantaggi sociali per girare un film o una serie. Per guadagnarci. Una volta finito tutto, i ragazzi vengono abbandonati e non gli viene dato alcun coraggio per cambiare vita. Questa è stata la mia paura. Ma perché se gli hai insegnato a stare su un set e a prendere la luce, se la sua ignoranza ti è tornata utile, se hai scoperto perfino che in camera funziona, allora non gli insegni pure a sognare?».

La seconda stagione di Mare fuori arriva stasera (17 novembre) su Rai 2. La “solita scelta tra bene e male” riguarda tanto la serie quanto il tuo personaggio. Che rapporto hai oggi con Pino?
Per Pino è una continua lotta, dover affrontare le difficoltà della sua vita e i problemi in famiglia, le mancanze d’affetto e l’assenza dei genitori. È la sua debolezza, perché lui utilizza questo dolore per passare dalla parte del male. Si lascia trascinare dalla società e dalla melma in cui è cresciuto, per questo gli sembra giusta. Perché sceglie il male? Perché è la scelta più facile. E per me è anche da deboli.

D’altra parte si fa fatica a giudicarlo fino in fondo, se il suo primo peccato è stato quello di difendersi.
Non si sceglie dove si nasce e dove si cresce. Non possiamo scegliere la nostra famiglia, possiamo solo essere intelligenti e trasformare ogni svantaggio in vantaggio. Ma uscire dal dolore è un rischio.

“Noi siamo nati difettati, per essere migliori bisogna essere più stronzi degli altri”, dite nella serie voi ragazzi del carcere minorile. La felicità come diritto di nascita riservato a pochi: sei d’accordo?
No, la voglia di riscatto parte da dentro, quando senti il bisogno di non restare uguale a ciò che ti ha ferito. Io ho avuto il coraggio di riscattarmi dall’ambiente in cui sono nato. Anche per essere d’esempio ai ragazzi del quartiere in cui sono cresciuto. Le mancanze che ti contaminano negativamente possono portarti all’ambizione, l’ambizione può darti un nuovo obiettivo, e l’obiettivo trasformarsi in risultato. Il risultato è la ricompensa.

Ma tu da ragazzino sognavi di fare l’attore?
Io avevo tutt’altri sogni. Da piccolo il mio primo sogno è stato quello di avere una famiglia unita. Il secondo di sfamarla. Ora, il terzo, è di essere una persona felice, una persona perbene.

Serve disciplina per essere una persona perbene?
Sì. Soprattutto perché non volevo fare questo mestiere, mi ci sono ritrovato dentro. E mi sono sentito perso, un pesciolino che aveva sempre vissuto in un vaso e all’improvviso veniva buttato nell’oceano: quali sono gli obiettivi? Cosa significa avere una squadra? Ho deciso di diventare davvero attore dopo la prima quarantena.

Non dopo La paranza dei bambini o la prima stagione di Mare fuori?
No no, all’inizio lo facevo solo per soldi. Non riuscivo a comprendere le dinamiche di questo mestiere.

Quindi è iniziata come un gioco?
Direi un gioco che mi ha fatto guadagnare. Poi ho pensato che se ero riuscito a fare questi primi ruoli senza aver mai studiato né aver sognato di fare l’attore, allora c’era un perché. È quello che penso anche oggi, mentre faccio un’intervista per Rolling Stone. Riesci a crederci?

C’è stata una telefonata che ti ha cambiato la vita…
Sì, che prima mi ha distrutto e poi mi ha ricostruito. Quando mi hanno chiamato per La paranza dei bambini non sapevo cosa fare della mia vita né come inviare una email a un’agenzia. Ero in cameretta mia, mamma stava in cucina e ha risposto al telefono: “Stanno facendo questo casting e vogliono vederti”.

Ci hai creduto subito?
Non ci volevo proprio andare. Pensavamo volessero imbrogliarmi. Mia mamma ha richiamato e ha chiesto solo: “Ma si paga?”. Non si pagava, così il giorno dopo mi sono presentato lì. Mi hanno ricontattato sette mesi dopo, stavo lavorando in un autolavaggio per fare soldi e partire all’estero. Ho preso il ruolo.

Finire subito al Festival di Berlino può essere un rischio?
Sì. Quando stavo a Berlino visualizzavo cose belle, il tappeto rosso, i giornalisti, le persone che ci fotografavano. Ci trattavano da vip, ci spostavamo solo con macchine di lusso. Abbiamo fatto una festa con persone importanti all’Ambasciata Italiana. Osservavo e mi dicevo: “Guarda che vita. Domani c’ho il biglietto di ritorno per Napoli e ricomincerà tutto da capo. No cavolo, questa è la vita che voglio avere anche io, non voglio sia solo oggi”.

L’ambizione di essere come loro, quindi?
Sì, l’ambizione di fare una telefonata il giorno dopo: “Abbiamo fatto questo bellissimo film, ma ora che succede? Ci abbandonate così? Ci date un agente? Come andiamo avanti?”. Mi hanno spiegato che questo mondo è difficile, che gli attori spesso non lavorano. “Però ti lascio il numero di telefono di una regista di teatro, stanno facendo dei provini per uno spettacolo scritto da Maurizio Braucci”.

Non è che con il teatro si guadagni benissimo…
Io ho passato il provino e dopo due giorni me ne sono andato. Annalisa D’Amato è una grande regista, ha lavorato con Peter Brook ed è un’ex allieva di Grotowski. Lei sa sfruttare le particolarità dei ragazzi. Ho fatto solo due capriole, su suggerimento dei miei amici della Paranza, e lei si è innamorata di quella cosa perché poteva utilizzarla. Tra noi si è creato subito un bellissimo legame.

Ma allora perché te ne sei andato, scusa?
Perché mi sentivo inadeguato, non avevo capito di esserle piaciuto. Per due mesi non ho fatto niente.

Un film e via, insomma.
Sì. Basta teatro, basta cinema. Però Annalisa mi ha richiamato per un caffè. Mi ha detto: “Io vado in scena con duecento ragazzi ogni volta, quando uno se ne va non posso corrergli dietro. Ma vorrei che tu tornassi a studiare con me. Ti prometto che se ritorni ti faccio fare un casting per una serie”.

Soldi, quindi.
Sì, quella era un’opportunità di fare di nuovo soldi. Di far ripartire la ruota. Mi è sembrato un buon compromesso, e lei ha mantenuto la parola. Ma continuavo a pensare: non è il mondo che fa per me. Troppe attese, devo dipendere dagli altri, non si guadagna sempre e con certezza. Allora ho comprato un biglietto per Londra.

Ho l’impressione che però alla fine tu non sia partito…
Dovevo partire di sabato. Venerdì mi è arrivata una telefonata dalla produzione: era il callback per Mare fuori alle nove e trenta del mattino. E allora si è fermato tutto: la voglia di partire, di scappare.

Artem in ‘Mare fuori 2’. Foto: Sabrina Cirillo

In un post hai scritto: “Nei momenti di difficoltà il male mi ha tentato un sacco di volte e ci sono caduto”.
Certi ambienti ti tentano tutti i giorni. Credo mi abbiano salvato solo la disciplina e la fede.

La fede?
Io personalmente mi ispiro solo a Dio. Perché se riesci a credere e amare una cosa che non vedi e non tocchi, praticamente credi nella vita. Riesci a visualizzare i tuoi sogni e i tuoi obiettivi pure dal posto brutto in cui vivi. Allora nel degrado senti l’energia, e credi. Chi può fermarti?

E la fede che dimensioni assume su un set?
Ogni volta, prima di entrare in scena, percepisco l’energia. Non c’è metodo, per me l’emozione si trasforma così. Nel pensare: com’è possibile che io riesca a fare questo lavoro senza averci mai provato? Significa che tu, che stai là sopra, mi hai preparato tutta la vita per arrivare qui. Capisci cosa voglio dire?

Non lo so, ma mi affascina. Com’era la tua vita? Le tue giornate nel quartiere prima di fare questo mestiere?
Mi ha salvato il pugilato. Perché passavo il 70% del tempo in palestra e solo il 30% per strada.

Ma scommetto che stai per dirmi che i due ambienti hanno qualcosa in comune.
Per me? Li accomuna la stessa filosofia di vita: non ti devi far buttare per terra e farti ammazzare dagli altri. Né dall’ignoranza né dal male che c’è qua fuori. Il pugilato mi proteggeva, ma mi fortificava anche per uscire fuori. Il passaggio sul set invece è stato difficile, se non hai una guida non capisci, sei solo un ragazzino di diciott’anni.

Artem, Nicolas Maupas, Massimiliano Caiazzo n ‘Mare fuori 2’. Foto: Sabrina Cirillo

L’hai mai trovata una guida sul set?
L’unica persona è stata Carmine Elia, il regista della prima stagione di Mare fuori. Dopo una scena mi è venuto vicino e ha detto: “Senti ragazzo, tu mi devi fare una promessa: non devi abbandonare ‘sto talento, perché sarebbe un peccato”. Mi ha dato un consiglio, o forse solo un’attenzione, ma per me quel momento è stato particolare. Mi ha toccato e mi ha fatto ragionare.

Le gerarchie del set le soffri?
Sai cosa odio di più in realtà? Per me il set è un luogo sacro, in cui avviene la creazione e scateniamo le emozioni. È una ricostruzione della vita. Allora non sopporto chi porta negatività. Quelle persone che entrano e si lamentano sempre, come fosse un lavoro qualunque.

Una ricostruzione della vita, infatti: con ruoli come quello di Pino ‘O Pazzo e Tyson non ti impressiona interpretare proprio il contesto e la violenza da cui sei scappato?
Dici interpretare il male? Ho sempre voluto scappare e andarmene all’estero, invece adesso sto interpretando la vita quotidiana che facevo prima. E sono diventato pure conosciuto per questo (ride). Direi che va bene. Vedi? Ho sfruttato i miei svantaggi.

Però mentre i tuoi personaggi sembrano ingabbiati in un destino già scritto, tu il tuo lo stai riscrivendo. Cosa ricordi dell’arrivo a Napoli?
La primissima volta avevo 6 anni. È stata anche la prima volta che ho visto mio padre e la mia famiglia. Ma dopo pochi mesi sono tornato in Ucraina e ho vissuto lì per altri quattro anni. Sono davvero arrivato in Italia a 10 anni: dopo un attimo ero già in strada a giocare a calcio con gli altri ragazzini. Non parlavo, non avevo una lingua, non conoscevo nessuno. Ho imparato prima il napoletano e poi l’italiano.

Oggi l’Ucraina non ti manca mai?
Penso che se restavo là, oggi non stavo qua. Però mi manca, sai, se vado a fare un weekend fuori in montagna, tra la natura… Ho bisogno di quello spazio, di quell’energia che mi riporta all’infanzia.

Pino sembra essere in una nuova fase della sua vita: cambierà qualcosa anche dentro di lui?
Ci sono delle emozioni nuove. Guarda come è incredibile: la sua sofferenza prima l’ha soffocato, e lui voleva distruggersi fino ad impiccarsi. Poi magicamente si è ritrovato nell’amore e nel bene. Vedi che Pino non è tanto cattivo, è stato una vittima.

E tu?
Per me è stato tutto bello, anche se è stato difficile. Uscire da scuola e non trovare mia madre, mio padre. Oggi mi sento davvero grato alla vita.

Se domani dovesse finire tutto?
Se non mi dovessero più chiamare a fare film, ho comunque trovato la strada giusta facendo l’attore. Mi sono fatto delle domande, ho imparato a credere in me stesso, ho trovato pure altre fonti di guadagno. A me il cinema mi ha totalmente aperto la mente. Ma bisogna stare coi piedi per terra in questo mestiere. Quando la ruota inizia a girare parecchi si perdono, si sentono già grandi. È un po’ come la malavita: più soldi c’hai e più ti senti forte. Cambia subito il tuo modo di camminare e di guardare gli altri, diventi arrogante. Il successo può giocare lo stesso scherzo.

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