Icona globale dello sport e protagonista di una vita drammatica, Diego Maradona aveva incuriosito Asif Kapadia (Amy, Senna) quando era ancora alla scuola di cinema. «Aveva una storia incredibilmente forte con dei picchi di ombre e luci davvero estremi», ricorda. Più di 20 anni dopo, il documentario Diego Maradona (prodotto da James Gay-Rees e Paul Martin) è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes (Fuori Concorso) e ora è al cinema come evento speciale dal 23 al 25 settembre. Il film si concentra sull’esperienza di Maradona con il Napoli, seguendo la carismatica star tra i successi personali e il contatto con la folla.
Hai molta esperienza con i materiali d’archivio. Come ti organizzi nel lavoro?
Sono un maestro nel complicarmi le cose da solo. Il suo agente ha avuto l’idea di realizzare un film su Diego Maradona nei primi anni ’80 e ha assunto due cameraman per seguirlo dall’Argentina alla Spagna, a Barcellona e poi a Napoli. Ci sono 500 ore solo di riprese personali, migliaia di ore tra notiziari e filmati d’archivio. E ogni partita dura circa due ore: il processo chiave è l’eliminazione. Guardi il filmato, lo studi e ti chiedi: dov’è la parte drammatica? Dov’è la storia? Cosa c’è di vitale importanza? Che cosa è ripetitivo? Questo è il divertimento e la sfida del mio lavoro. Cosa porta avanti la storia? Devi fare delle scelte difficili. Non si può includere tutto quando si parla di qualcuno che ha condotto una vita così lunga e “ricca”.
Quanto Diego Maradona si basa su ciò che hai fatto prima e cosa c’è di diverso?
Purtroppo Senna e Amy Winehouse sono morti giovani. Maradona invece è un uomo che sta ancora vivendo la sua vita. Una delle sfide era: dove finisce la storia? Sto raccontando qualcosa che è accaduto 30 anni fa a Napoli. Il materiale d’archivio può dirti una cosa, le persone intorno a lui ne raccontano un’altra e poi tu incontri Diego, e lui dice il contrario. È la sua vita e la sua storia, ma non corrisponde a quello che dicono gli altri di lui. E questo fa parte della sfida. Volevo fare un film che mi spingesse in una direzione diversa. Non volevo continuare a ripetermi.
Come hai affrontato il documentario dal punto di vista stilistico?
Non ci sono personaggi: volevo farlo risultare drammatico ed emozionante, come se il pubblico vivesse le cose insieme a lui. La partitura, il suono e l’energia: l’idea è quella di portarti in un posto in cui non sei mai stato. Io intervisto Maradona ma il modo in cui è costruito il documentario, fa sentire soltanto la sua voce, nello stile di Amy. Alcune parti della sua vita sono simili a quelle di Ayrton Senna in quanto eroe latinoamericano; altre parti sono simili a Amy perché ha avuto problemi di dipendenza. Ma si tratta anche di un film che parla di crescere e invecchiare, della famiglia e di altre questioni, che sono molto più complesse e meno semplici.
Cosa ti aspetti da Cannes?
Ho un pass e quando tutti se ne saranno andati e avrò finito il mio lavoro, guarderò più film che posso! Entrare nel cinema Lumiere, vedere per la prima volta un grande film con un pubblico e sapere che questo è una delle bellezze più grandi del cinema… questa è la gioia più pura. Sono un amante del cinema ed è la cosa che amo di più. Conosco molte persone che vanno a Cannes ogni anno e non vanno a vedere neanche un film. Non sono quel tipo di persona.
Questa intervista è stata pubblicata sul sito di Variety il 21 maggio 2019. Tutti i diritti riservati.